Saki lo conoscono in pochi

Saki scrisse soprattutto racconti brevi, ma brevi brevi, cinque-sei pagine al massimo, piccole storie che mescolano umorismo e orrore, ma che mischiati si trasformano – l’umorismo e l’orrore – e assottigliano entrambi. Nella storia dei racconti brevi fu uno dei migliori in assoluto, anche se la sua sottigliezza, e in qualche misura gentilezza, ne hanno attutito la fama. Il suo vero nome era Hector Hugh Munro, ed era nato in Birmania, oggi Myanmar, nel 1870, figlio di un ispettore generale dell’Impero britannico. Rimase orfano a due anni, quando durante una vacanza in Inghilterra sua madre Mary fu caricata da una mucca e morì. Il padre lo lasciò in un collegio inglese, e probabilmente fu dura. Ma come per Dickens e Kipling – sostiene Graham Greene nella prefazione ai Racconti appena pubblicati dal Saggiatore – fu la sua infanzia infelice a formare il suo stile e a indirizzarlo verso storie che – esattamente come la morte di sua madre – sembrano sempre in bilico tra l’ironia malefica di un incidente e l’inestinguibile vuoto della scomparsa. Saki, che lavorò come corrispondente per i giornali, morì di febbre nel 1816, a 46 anni, in un villaggio dell’Africa occidentale. Le sue ultime parole – dicono – furono: «Put out that bloody cigarette!», «Spegni quella maledetta sigaretta!».

Hector_Hugh_Munro_aka_Saki,_by_E_O_Hoppe,_1913
Saki, in un ritratto del 1913 di E. O. Hoppé

Di Saki, fino a ieri, a parte qualche ebook semiclandestino, in commercio non esisteva più nulla. I pochi che lo conoscono e apprezzano, lo avevano letto in due raccolte da tempo fuori catalogo: L’nsopportabile Bassington e altri racconti, pubblicato da Einaudi nel 1950, e soprattutto La reticenza di Lady Anne, pubblicato nel 1980 da Franco Maria Ricci nella collana La Biblioteca di Babele diretta da Jorge Luis Borges, una delle più belle della storia dell’editoria italiana. Se Saki non è diventato famoso come Edgar Allan Poe, Wilde, Kafka, Lovecraft o Raymond Carver, rimanendo l’oggetto di un culto disperso e distratto, è perché nei suoi racconti, alcuni dei quali straordinari, c’è sempre uno sguardo critico e ironico, mai spietato, quasi comprensivo, verso i difetti degli altri, e perché non ribaltano il mondo – inventando scarafaggi, donne che tornano dalla morte o cuori rivelatori – ma si limitano a spostare un elemento, uno solo, per mostrare che ogni realtà, anche la più tranquillizzante e conformista, potrebbe avere un doppio fondo, un interruttore invisibile premendo il quale tutto quello che ci appariva immutabile potrebbe all’improvviso rivelare una consistenza liquida e infida, ma in fondo ridicola, dentro la quale da un istante all’altro si può scivolare.

La maggior parte dei racconti di Saki sono ambientati nell’Inghilterra edwardiana, in una società minima e tronfia, rassicurata dalla storia e dalla potenza dell’Impero britannico, sul fatto che tutto andrà come deve, come sempre, lungo i binari di un ordine eterno. I suoi protagonisti sono piccoli aristocratici, bambini inquietanti, ragazzine sadiche, signorotti di campagna con l’hobby della caccia al beccaccino, funzionari tranquilli e un po’ scemi, animali pensanti, ma non per questo privi di insicurezze e di uno sguardo sul mondo. Anche i racconti che esplorano altri luoghi, esotici – i Carpazi, Bergamo, la campagna inglese o sperduti sangiaccati – mettono sempre in scena mondi convinti di durare per sempre, e invece in procinto di sgretolarsi e rivelarsi inconsistenti.

Nella prefazione alla raccolta – un’operazione folle da un punto di vista editoriale: 662 pagine, 45 euro (solo ilSaggiatore poteva buttarsi in un libro del genere) – Graham Greene a un certo punto ha il dubbio di avere enfatizzato troppo l’aspetto macabro e violento delle storie di Saki. Alcuni dei suoi racconti migliori – a cominciare da quel piccolo capolavoro che è Sredni Vashtar, la storia di un ragazzino che per disperazione incomincia a venerare il proprio furetto, fino a trasformarlo in un Dio sanguinario e vendicativo – hanno come protagonisti bambini che fanno cose terribili, ma verso i quali è impossibile non provare simpatia. Tutti i personaggi di Saki, soprattutto gli adulti, conservano qualcosa di infantile: lo stupore di essere qualcuno e di essere diventati qualcosa, una difficoltà disarmata di avere a che fare con un mondo che appare sempre diverso, e molto più cattivo, da quello a cui ti avevano educati e che ti avevano promesso gli adulti.

In questo Saki – che per certi versi è uno scrittore rinchiuso nella propria epoca – ha qualcosa che dura. La percezione che nell’ordinato, plausibile, svolgersi delle nostre esistenze si possano aprire dei buchi, che gli eventi possano sempre prendere pieghe impensate e impensabili perché tutto quanto ci appare reale – esattamente come quando eravamo bambini – è in realtà quasi impossibile. Il racconto che pubblichiamo – tradotto come gli altri da Gioia Guerzoni e Ada Arduini – non è il più bello di Saki. È troppo distante dal suo personaggio e l’ambientazione italiana è troppo pittoresca per sembrarci del tutto credibile. Eppure racconta, quasi nei dettagli, un curioso fatto di cronaca avvenuto nel febbraio 2017, più di un secolo dopo il momento in cui il racconto fu scritto. Questa circostanza – sfortunatamente per voi e per Saki, che probabilmente avrebbe preferito Sredni Vashtar, Gli intrusi, I segugi del destino, Il Sangiaccato perduto o Gabriel Ernest – ne rende la pubblicazione francamente irresistibile.

saki

La tela

«Il gergo artistico di quella donna mi sfianca» disse Clovis al suo amico giornalista. «Riguardo a certi quadri le piace tanto dire che “ti crescono dentro”, come se fossero funghi.»

«Questo mi fa venire in mente» disse il giornalista «la storia di Henri
Deplis. Te l’ho mai raccontata?»

Clovis scosse la testa.

«Henri Deplis era nato nel Granducato del Lussemburgo. Poi ci ripensò e diventò viaggiatore di commercio. Le sue attività professionali lo portavano spesso oltre i confini del granducato, e si trovava in una cittadina del Nord Italia quando da casa gli giunse la notizia che aveva ricevuto un’eredità da un lontano parente.

«Non era una grossa somma, anche dal modesto punto di vista di Henri Deplis, ma lo spinse a commettere qualche stravaganza apparentemente innocua. In particolare, lo convinse a diventare il mecenate di un artista locale, il tatuatore Andreas Pincini. Il signor Pincini era forse il più straordinario artista del tatuaggio che l’Italia avesse mai conosciuto, ma si trovava in una situazione di profonda indigenza e per la somma di seicento franchi accettò di buon grado di coprire la schiena del cliente, dalla nuca alla vita, con una vivida raffigurazione della caduta di Icaro. Il disegno, nella sua versione finale, costituì una lieve delusione per Monsieur Deplis, convinto che Icaro fosse una fortezza conquistata da Wallenstein durante la guerra dei Trent’anni, ma lo soddisfece pienamente l’esecuzione, lodata come il capolavoro di Pincini da tutti coloro che ebbero il privilegio di ammirarla.

«Fu la sua più grande impresa, e l’ultima. Senza nemmeno attendere di essere pagato, l’illustre artigiano lasciò questo mondo e fu seppellito sotto una lapide scolpita, i cui cherubini alati gli avrebbero fornito uno spazio davvero limitato per l’esercizio della sua arte favorita. Tuttavia restava la vedova Pincini, a cui spettavano i seicento franchi. E così nella vita di Henri Deplis, viaggiatore di commercio, si aprì una profonda crisi. L’eredità, minata da una serie di piccole ma numerose sottrazioni, si era ridotta a dimensioni davvero insignificanti, e quando furono saldati un conto per il vino e uno per oggetti vari, da tempo in attesa, da offrire alla vedova restarono poco più di quattrocentotrenta franchi. La signora si indignò, com’era ovvio che accadesse, non tanto, come spiegò con grande scioltezza, per il suggerito sconto di centosettanta franchi, ma anche per il tentativo di deprezzare il valore del capolavoro riconosciuto del suo defunto marito. Nel giro di una settimana Deplis fu costretto a ridurre l’offerta a quattrocentocinque franchi, e questo trasformò l’indignazione della vedova in furia. La donna annullò la vendita dell’opera d’arte e qualche giorno dopo, con grande costernazione, Deplis venne a sapere che l’aveva offerta al comune di Bergamo, che l’aveva accettata con gratitudine. Deplis lasciò la città nella maniera più invisibile possibile e provò un autentico sollievo quando gli affari lo portarono a Roma, dove sperava che la sua identità e quella della celebre opera potessero sparire.

«Ma portava sulla schiena il fardello del genio del defunto. Un giorno, presentandosi nel corridoio pieno di vapore di un bagno turco, fu immediatamente fatto rivestire dal proprietario, che era del Nord Italia e si rifiutò categoricamente di permettere che la celebre Caduta di Icaro fosse pubblicamente esposta senza il permesso del comune di Bergamo. L’interesse pubblico e la vigilanza ufficiale si intensificarono mentre la notizia si diffondeva, e nei pomeriggi più afosi Deplis non riuscì nemmeno a fare il bagno in mare o in un fiume senza dover indossare un costume abbottonato fino alla clavicola. In seguito le autorità bergamasche si convinsero che l’acqua salmastra poteva danneggiare il capolavoro e riuscirono a ottenere un’ingiunzione perpetua che vietava all’assillato viaggiatore di commercio di bagnarsi in mare in qualsiasi circostanza. Quindi Deplis fu profonda mente felice quando la ditta per cui lavorava gli procurò una nuova serie di attività nei pressi di Bordeaux. Tuttavia, la sua gioia svanì improvvisamente alla frontiera francoitaliana. La partenza gli fu impedita da un impressionante spiegamento di forze governative e gli fu severamente ricordato
che in Italia esiste una legge che proibisce l’esportazione delle opere d’arte.

«Ne scaturì un negoziato tra il governo italiano e quello lussemburghese, e improvvisamente sull’Europa cadde l’ombra di possibili disordini. Ma il governo italiano tenne duro; rifiutò di occuparsi anche minimamente delle fortune o dell’esistenza di Henri Deplis, viaggiatore di commercio, ma fu irremovibile nella sua decisione che la Caduta di Icaro (del fu Pincini Andreas), attualmente di proprietà del comune di Bergamo, non dovesse lasciare il paese.

«Con il tempo l’eccitazione si spense, ma qualche mese dopo lo sfortunato Deplis, di carattere costituzionalmente timido, si ritrovò al centro di una furiosa controversia. Un certo specialista d’arte tedesco, che dal comune di Bergamo aveva ottenuto il permesso di ispezionare il celebre capolavoro, dichiarò che era un falso, forse opera di un allievo del Pincini da lui impiegato negli anni del declino. Ovviamente la testimonianza di Deplis in proposito fu ritenuta priva di valore, dal momento che il lungo processo di disegno con l’ago era avvenuto mentre era sotto l’effetto dei narcotici usati in genere in quella circostanza. Il direttore di una rivista d’arte italiana respinse il referto dell’esperto tedesco e si prefisse di dimostrare che la sua vita privata non si conformava agli standard minimi della decenza. L’Italia e la Germania intere furono trascinate nella disputa, e presto fu coinvolta anche tutta l’Europa. Al Parlamento spagnolo si assistette a scene di violenza e l’Università di Copenaghen assegnò una medaglia d’oro all’esperto tedesco (dopo avere inviato una commissione a esaminare le prove in loco), mentre a Parigi due ragazzi polacchi si suicidarono per dimostrare ciò che pensavano della questione.

«Intanto, l’infelice tela umana non se la passava meglio di prima e non c’è da stupirsi che sia finito tra le fila degli anarchici italiani. Almeno quattro volte fu scortato alla frontiera in quanto straniero pericoloso e indesiderabile, ma veniva sempre rispedito indietro per via della Caduta di Icaro (attribuita a Pincini Andreas, primi del ventesimo secolo). E poi un giorno, durante un convegno di anarchici a Genova, un compagno, nell’eccitazione del dibattito, gli ruppe sulla schiena una fiala di liquido corrosivo.La camicia rossa che Deplis indossava mitigò gli effetti, ma l’Icaro fu irrimediabilmente rovinato. L’aggressore fu severamente biasimato per avere assalito un compagno anarchico e condannato a sette anni di prigione per avere sfregiato un tesoro artistico nazionale. Non appena fu in grado di lasciare l’ospedale, Henri Deplis fu condotto alla frontiera in quanto straniero indesiderabile.

«Nelle più tranquille strade di Parigi, soprattutto nel quartiere del ministero delle Belle arti, a volte capita di incontrare un uomo dall’aria ansiosa e depressa che, se gli dici che ore sono, ti risponde con vago accento lussemburghese. Nutre l’illusione di essere una delle braccia perdute della Venere di Milo e spera che il governo francese si convinca ad acquistarlo. Per quanto riguarda tutto il resto, credo sia accettabilmente sano.»

© il Saggiatore S.r.l., Milano 2017

Giacomo Papi

Giacomo Papi è nato a Milano nel 1968. Il suo ultimo romanzo si intitola Happydemia, quello precedente Il censimento dei radical chic. Qui la lista dei suoi articoli sui libri e sull’editoria.