La parola “buonismo“
La parola «buonismo» fu inventata dal professor Ernesto Galli Della Loggia in un editoriale intitolato «L’Ulivo di Prodi o Garibaldi» pubblicato il 1° maggio 1995 sulla prima pagina del Corriere della sera. Da allora ha avuto un’immensa fortuna, è stata ripetuta da chiunque, in qualunque circostanza e contesto, da esponenti politici, giornalisti famosi, in rete, nei bar, perché serve a ribaltare in insulto una qualità, la bontà che dovrebbe essere la più importante tra le virtù cristiane. L’antecedente storico e linguistico diretto, quasi letterale, è il termine «pietismo», utilizzato dopo il 1938 contro chi spendesse qualche parola in favore degli ebrei vessati dalle leggi razziali. Fu un termine diffuso, di uso comune nel discorso pubblico, con cui si impediva ogni pietà ed esitazione. Ancora nel 1948 nell’Enciclopedia Treccani alla voce «Fascismo» si legge: «È altresì noto come il “pietismo” filosemitico fosse anche nei ranghi del partito, e fin nelle sommità (Balbo, per esempio), largamente diffuso». Anche durante il fascismo, una virtù, la pietà, l’essere pietosi, fu distorta e ribaltata in un vizio e in una debolezza, in modo da assolversi preventivamente da ogni colpa, per esempio quella di rastrellare e mandare a morire gli ebrei italiani.
Si torna a parlare di «buonismo» dopo il caso delle due donne rom rinchiuse in una gabbia e filmate con i telefonini da due impiegati della catena di supermercati Lidl perché sorprese a frugare nell’area dove viene portata la merce fallata. Chiunque abbia protestato o si sia scandalizzato di fronte alle risate dei carnefici e alla grida delle vittime è stato liquidato come «buonista». In un articolo su Repubblica, Roberto Saviano ha proposto di abolire il termine, ormai diventato «una specie di scudo contro qualsiasi pensiero ragionevole, contro qualsiasi riflessione in grado di andare oltre il raglio della rabbia e la superficialità del commento». Ma abolire una parola è impossibile, e forse sbagliato, soprattutto se questa parola svolge una funzione sociale e politica importante, centrale nel discorso pubblico. Come ha scritto Michele Serra, il «buonismo» «è un alibi insostituibile», perché «serve a ridurre ogni moto di umanità o di gentilezza a un’impostura da ipocriti, e di conseguenza ad assolvere ogni moto di grettezza e di disumanità».
L’uso del termine «buonismo» è un classico esempio di marketing negativo, estremo perché basato su una doppia negazione. Come in pubblicità si possono esaltare le caratteristiche negative di un prodotto per aumentarne il desiderio, così in politica si possono svalutare quelle positive dell’avversario per apprezzare le proprie. La realtà è che nessuno, nemmeno Salvini, ha il coraggio di dire apertamente di avere liberamente scelto di essere cattivo e spietato, e può immaginare di avere consenso su questo. Così sceglie di svalutare chi sceglie l’opzione contraria, bollandola come sentimentale e ipocrita, quando è evidente che l’ipocrisia è tutta nella scelta di mascherarsi e nascondersi dietro la caricatura dell’altro. Per questo, il modo più efficace di rispondere all’accusa è ribaltare di nuovo il significato morale del termine.
La parola buonismo non va abolita, va rivendicata. È il tentativo – la scelta – di provare a essere buoni e pietosi, sempre, verso gli innocenti come verso i colpevoli, verso gli ebrei deportati e i clandestini sbarcati, verso le rom trattate come animali dannosi e gli impiegati della Lidl probabilmente esasperati dalle continue visite delle donne rom e sicuramente convinti, nella loro ignoranza bestiale, di fare solo uno scherzo da condividere in rete. Il buonismo e il pietismo definiscono l’atteggiamento di chi, comunque, si sforza di comprendere le ragioni degli altri e le circostanze che li spingono a comportarsi male. La pietà di noi buonisti deve valere per tutti, perfino per Salvini che sicuramente racconta a se stesso e a suo figlio di avere delle buone ragioni, anche se nasconde ipocritamente a se stesso e agli altri la propria interessata ipocrisia. È buonista chi scommette sul fatto che ci si possa capire, anche quando è difficile, quasi sovrumano. È buonista chi vuole distinguere sempre, perché rifiuta di sprofondare nell’ignorante pigrizia autoassolutoria della categorizzazione, è buonista chi respinge la logica amici/nemici e cerca di non cedere mai alla tentazione incivile di fare di tutta l’erba un fascio.
Un giudice buonista non condannerebbe gli impiegati della Lidl al licenziamento. Gli imporrebbe di trascorrere un mese in vacanza in un campo rom, con i bambini rom e le donne rom, per cercare di capire come vivono e perché rubano, a mangiare con loro, dormire con loro. Si farebbero un’idea più complessa, anche nel male. E un giudice veramente buonista, ma buonista buonista, buonista fino alla meravigliosa imbecillità dei buoni davvero, li spedirebbe a fare una vacanza di lusso, magari al Billionaire Malindi Resort di Briatore, insieme alle due donne rom che hanno rinchiuso in gabbia, ripagando queste ultime del sacrificio con ricchi buoni sconto alla Lidl e con la licenza a vita di frugare nell’area della merce fallata tutte le volte che vogliono. Dopo un mese insieme probabilmente tutti e quattro sarebbero persone migliori. Il buonismo è concedere la buona fede agli altri, anche quando non c’è. È desiderare di fidarsi perché se finisce la volontà di comprendersi – ed è quello che sta succedendo anche in Italia – finisce la civiltà e non ha senso la democrazia. Roberto Saviano e Michele Serra terminano i loro articoli citando il Maestro Yoda: «La paura è la via per il Lato Oscuro. La paura conduce all’ira, l’ira all’odio; l’odio conduce alla sofferenza». Le fasi della paura, dell’ira, dell’odio per molti sono passate. Siamo dentro la sofferenza, quindi bisogna ricominciare dalle parole: e se nessuno vuole concedere più la parola buoni a chi si sforza di esserlo, vada per buonisti, che in fondo è lo stesso.