La vendetta dei gufi
Un pezzo scritto per Linus un anno e mezzo fa sulla vendetta dei simpatici pennuti che sanno vedere il buio
Mio suocero è un gufo. Ma se qualcuno glielo fa notare diventa una bestia. “Sono soltanto obbiettivo”, chiarisce tra i denti. Ma io me ne accorgo quando si avvicina con cattive intenzioni. Tiene in mano Il manifesto e mi fissa con quei suoi occhi neri acuminati e un’espressione finto contrita in faccia, fermandosi troppo vicino, così vicino che non posso metterlo a fuoco, e allora mi fa: “Hai visto che è stato assolto Crespi, l’ex sondaggista di Berlusconi? Il solito emendamento. Questo qui (Renzi, Nda) è peggio dell’altro anche sul falso in bilancio…”.
Annuisco e mi sforzo di sorridere, perché non ne so niente dell’assoluzione di Crespi e dell’emendamento e penso che per avere un’opinione dovrei approfondire, studiare, ma immediatamente mi accorgo di avere commesso un errore perché mio suocero, incoraggiato dall’incertezza, mi incalza: “E hai letto questo articolo di Picozzini a pagina 24 del manifesto di tre settimane fa?”. Scuoto la testa. “Sostiene che il Jobs Act è una truffa, a partire dal nome”. Lo so anch’io che “Jobs Act” è un nome ridicolo, ma gli dico lasciami stare, ti prego, non litighiamo, non ho più opinioni su niente, la verità è che dopo il millennio berlusconiano non ho più voglia di pensare male, ma lui non ha pietà e risponde non hai capito, è solo per spiegarti che siamo un Paese da ridere…
E a quel punto ride davvero, e io percepisco limpida in fondo ai suoi occhi acuminati la libidine dell’io l’avevo detto. Mio suocero ha ragione su molte cose, lo ammetto, a partire dal nome “Jobs Act” che fa schifo. Ha ragione anche a irritarsi se lo chiamano gufo, per lo stesso buon motivo di igiene lessicale per cui bisogna diffidare di qualcosa che si chiama “Jobs Act”: “gufo” e “gufare”, infatti, sono termini estratti dal gergo calcistico, non hanno nobiltà né serietà, e trasformano la politica nella continuazione del Processo del lunedì con altri mezzi. Chi governa dovrebbe ribattere alle critiche, anche a quelle in malafede, senza sfottere e ridicolizzare. Non dovrebbe mai ridurre la complessità a una questione di sfiga e sfiducia, perché la persuasione è un problema suo, non di chi non gli crede. Il suo compito è convincere, non escludere.
Peraltro, la metafora zoologica presenta una potente controindicazione simbolica: il gufo (Asio otus, Linneo, 1758) è un animale bello e misterioso, che ha grandissimi occhi e vede nel buio al punto di essersi meritato la fama del saggio. È possibile che Renzi, il quale ha un immaginario pop e tre figli piccoli, si sia ispirato al gufo Anacleto della Spada nella roccia riservandosi il ruolo del giovane Artù, ma questo non farebbe che confermare una notevole, forse eccessiva, concezione di sé. Non è un caso, però, che siano i gufi – e non gattopardi, leoni, sciacalletti, iene e pecore di Tomasi di Lampedusa, topi e rane di Leopardi, api di Mandeville o cicale e formiche di La Fontaine – a rappresentare l’animale simbolo di questa fase politica.
In Italia i gufi esistono, almeno come metafora efficace – per quanto volgare – dell’attitudine a prevedere disastri e tifare contro. Al classico esempio della nazionale, si può aggiungere quello di Expo sul cui fallimento si sono impegnate legioni di pronosticatori. Se la sfiducia ha motivazioni oggettive tratte dalla cronaca e dall’ISTAT, è anche un’attitudine antica. La letteratura italiana trabocca di invettive contro l’Italia, da Dante a Petrarca, da Foscolo a Leopardi. E la memoria dell’acquiescenza al fascismo e della Resistenza ci hanno forse fatto introiettare l’idea che il compito dei buoni cittadini e intellettuali sia essere contro comunque, perché schierarsi a favore potrebbe essere indizio di conformismo, servilismo o complicità con il potere. L’Italia è spaccata in due, da sempre: papa contro imperatore, guelfi e ghibellini, fiorentini e pisani, garibaldini e borbonici, interventisti e pacifisti, comunisti e democristiani, don Camillo e Peppone, Coppi e Bartali, indiani e cowboy, RAI e Mediaset. È una vocazione bipolare che ha duemila anni di storia. Più che altrove, l’identità civile e politica italiana si costruisce per contrapposizione.
La Repubblica di Platone ci ha insegnato che in politica i nemici sono necessari, al punto che quando non esistono vanno creati. (E la Repubblica di Scalfari ha colto l’insegnamento alla lettera). I nemici rinsaldano il proprio fronte, creano solidarietà all’interno del gruppo, ma evocarli può essere rischioso, perché può unificare forze altrimenti disperse e diverse, dando forma a un fronte che altrimenti non sarebbe esistito. È il caso dei gufi di Renzi che a differenza dei capponi di Renzo non si beccano tra loro, ma si stanno alleando per beccarlo. Il gufo è l’unico rapace notturno che ha l’abitudine di appollaiarsi in gruppo, soprattutto d’inverno. Assomiglia, in questo, a quei pensionati che ogni mattina si radunano a scuotere la testa di fronte ai cantieri e a dire: “Non ce la farete mai”. Evocare i gufi, come in una seduta spiritica, è stato un grande errore politico che ha dato vita a un fronte composito e inconcepibile, che va da Camusso a Dagospia, da Fassina a Brunetta a Civati, Salvini, Landini, Passera e Grillo. L’accusa di gufaggio rinsalda potenti boiardi di stato, mediocri burocrati e impiegati di provincia, grandi quotidiani, piccole maestre, pensionati tristi e ragazzi in cappuccio nero. Anche perché niente è più irritante di uno che ti ripete che devi essere allegro. Renzi rischia di avere trasformato in gufo ogni altro animale: gattopardi, sciacalli, pecore, api, cicale e formiche, e perfino mio suocero.