Nessuno è perfetto, nemmeno il bicameralismo
Parlavo con una signora del referendum costituzionale prossimo venturo, quello che tra le altre cose deciderà di abolire il Senato per come l’abbiamo conosciuto. La signora ha appena compiuto 75 anni, ha insegnato italiano alle superiori, legge Repubblica e il Manifesto ogni mattina, non si è persa una puntata di Santoro, poi di Floris, Mentana, Giannini e Lilli Grüber, e non se ne perde una neppure di Tommaso Labate e David Parenzo, è una signora che la politica italiana la conosce e la frequenta, attraverso i mezzi di informazione, tutti i giorni della sua vita da una cinquantina d’anni. Lei diceva la sua e io dicevo la mia, era uno di quei dialoghi civili che riconciliano con le ragioni della democrazia e ridanno fiducia nel fatto che parlando, alla fine, ci si possa anche capire. Soltanto che ogni volta che mi capitava di pronunciare l’espressione «bicameralismo perfetto», la signora mi interrompeva con una domanda:
– Perché perfetto?
Io le rispondevo che l’Italia è uno dei pochi Stati al mondo, se non l’unico, dove le funzioni di Camera e Senato sono sovrapponibili, che questo a detta di molti produce qualche lentezza e che è dal dopoguerra che si discute dell’opportunità di correggere il «bicameralismo perfetto». E lei mi interrompeva:
– Perché perfetto?
Dopo un istante di stordimento, provavo a riformulare il concetto con parole più chiare, anche se non mi era parso di essere stato confuso: non tutti gli Stati hanno due Camere, ma quelli che ne hanno due tendono a distinguerne le funzioni in modo da evitare i difetti del «bicameralismo perfetto». A quel punto lei si riaveva e, implacabile, ritornava alla domanda iniziale, ogni volta con un tono impercettibilmente più innervosito.
– Perché perfetto?
Non voleva provocare. Era chiaro da tutto il suo atteggiamento, dal modo con cui si muoveva sulla sedia e pronunciava la domanda, anzi pareva sinceramente a disagio, un disagio che rimbalzava dal mio, che dopo avere riformulato lo stesso concetto per sedici volte in sedici modi diversi cominciavo a mostrare segni di stanchezza, anche se ogni volta ricominciavo con pazienza a tessere di nuovo la tela del ragionamento: in Italia il Senato fa le stesse cose che fa la Camera, e per questa parità di funzioni il nostro sistema è definito un «bicameralismo perfetto»… Bang! Era come andare a sbattere contro un muro: la signora si risvegliava da quello che ormai assomigliava a uno stato di torpore e prorompeva:
– Sì, ho capito, ma perché è perfetto se ha dei difetti?
È stata come una luce – avete presente quelle scene dei kolossal biblici in un cui un raggio di sole illumina il protagonista, vi ricordate John Belushi che urla «la banda!» nei Blues Brothers? Finalmente le nubi dell’incomprensione si aprivano per mostrare la celeste verità: la signora non capiva, proprio non aveva capito – nonostante Labate e Parenzo, Scalfari e Norma Rangeri, Floris, Giannini, Travaglio e Santoro – che perfetto non è soltanto il superlativo di «buono», non è un giudizio di valore, ma una constatazione tecnica, che significa anche assoluto e nel caso del bicameralismo italiano, paritario, ed era stato soprattutto sulla base e intorno a questa parola che si era formata la sua opinione. Ero ancora confuso, abbagliato dalla luce, e lei, che mi stava di fronte, sembrava più confusa di me, quasi arresa. Sospirò:
– Ma, scusa, se è perfetto perché bisogna cambiarlo?
Nei giorni successivi ho condotto molte indagini. Le prime volte iniziavo a parlare con il tono di uno che racconta qualcosa di straordinario, un clamoroso caso di ignoranza o fraintendimento, ma dopo la terza volta ho dovuto cambiare atteggiamento: tutte le persone a cui sottoponevo l’interpretazione di «bicameralismo perfetto» della signora, sgranavano gli occhi senza capire e mi rispondevano: «Embé, che cosa c’è di strano?». Ho interrogato per primi i miei figli, poi i familiari più stretti, a seguire ho provato a sottoporre il caso a due medici e un farmacista, a un industriale nel campo dei sanitari e a uno scultore, a un giardiniere, un idraulico e un assicuratore, a due maestri elementari e a un’oste di trattoria e quasi tutti, invariabilmente, anche tra i favorevoli alla riforma, si sono mostrati sicuri che perfetto poteva significare soltanto perfetto: non migliorabile. Anche a molti di voi, probabilmente, questo articolo apparirà più una spiegazione linguistica che il resoconto di una stranezza.
Il Post insiste molto, e giustamente, sul corretto utilizzo delle parole, soprattutto da parte dei mezzi di informazione. Purtroppo o per fortuna le parole hanno una natura mutante, nascondono angoli invisibili e cambiano faccia a seconda di chi le ascolta e pronuncia. Il ragionamento della signora – se è perfetto, perché bisogna cambiarlo – è molto probabilmente condiviso da milioni di italiani, quasi certamente più della metà di quelli a cui sia giunta voce della riforma o a cui gliene importi. L’avversario più grande della Riforma costituzionale probabilmente è lessicale, non sono l’impopolarità di Renzi, le petizioni dei costituzionalisti (alcuni), i banchetti dell’ANPI per il No alle festa dell’Unità o i conciliaboli convocati da Massimo D’Alema. È la parola «perfetto» (e infatti da qualche tempo si preferisce «paritario»). La politica è fatta anche di parole, ma le parole sono ambigue, cambiano significato nelle teste di ognuno, per ignoranza, disattenzione, a causa dell’ambiente di lavoro o familiare oppure perché gli orientamenti politici pregressi ne piegano e orientano i significati. In questa ambiguità la politica deve districarsi e da questa ambiguità deve cercare di difendersi.