L’islam hollywoodiano
Il bambino non ha niente di islamico. Sembra uscito da un catalogo della Carhartt. Indossa un maglioncino nero con la zip e pantaloni mimetici con i tasconi laterali. Il taglio di capelli è perfetto. Il piccolo boia punta la pistola contro la nuca di due disgraziati in ginocchio. Potrebbe essere un compagno di scuola (ricco) di tuo figlio uscito dalla Playstation per entrare nella realtà.
Se autentico, sarebbe l’ennesimo spot dell’Is costruito imitando l’immaginario occidentale. Un altro trailer di Homeland in cui gli ostaggi, vestiti in arancione, come i prigionieri di Guantanamo, vengono decapitati. L’influsso della cultura occidentale sul terrorismo islamico non è una novità. Senza L’Inferno di cristallo l’11 settembre non sarebbe stato neppure concepibile. Il modello culturale che l’ha ispirato sono i kolossal catastrofisti hollywoodiani. Non è questione di colpe, o di colpevolizzarsi, è questione di egemonia culturale.
Gli attentati di Parigi non fanno eccezione. Adottano soltanto modelli più semplici. Sono meno ambiziosi. La strage del Charlie Hebdo riproduce, in modo militarmente più rozzo e approssimato, le stragi nelle scuole americane. Il sequestro del supermarket kosher ricorda Quel pomeriggio di un giorno da cani. Si è scritto di terrorismo molecolare. Di un modello estemporaneo e replicabile da chiunque all’infinito, su cui poi un’organizzazione piuttosto che un’altra apporrà il proprio logo. Ma anche questo è un modello occidentale. È terrorismo in franchising, come Starbucks.
Nelle azioni dei terroristi islamici c’è poco di originale. C’è il martirio che nella pratica islamica fondamentalista è farsi uccidere, mentre nella cultura cristiana è essere uccisi per quello in cui si crede. E c’è l’uso dei bambini, le bombe umane di 10 anni di Boko Haram e il piccolo boia dell’Is. Ma è difficile pensare di fare proselitismo utilizzando bambini come carne da macello. Arruolare o colpire bambini, come è accaduto poche settimane fa nella scuola di Peshawar, non è mai un segno di forza.
Nel lanciare la sfida all’Occidente, il fondamentalismo islamico rimane incapace di produrre un immaginario alternativo a quello del nemico che vuole distruggere. Si limita a riprodurlo.
All’origine dell’odio potrebbe esserci anche la frustrazione per questa sudditanza culturale.
Dopo Charlie Hebdo, l’Europa sarà meno sicura. Chiunque, in qualunque momento potrà essere colpito e colpire. Ma quando si parla di islamizzazione dell’Occidente, ci si dimentica che è in corso anche l’occidentalizzazione dell’islam. Nella medina Marrakesh c’è l’happy hour e a Dubai ci sono discoteche e piste artificiali da sci.
Quando si racconta del fanatismo di ritorno di giovani nati e cresciuti in Europa, bisogna ricordarsi anche che per ogni ragazza europea che decide di indossare il velo, migliaia scelgono di toglierselo. Che per ogni studentessa uccisa dal padre pakistano per gli abiti troppo occidentali, centinaia di padri pakistani si rassegnano. Che a ogni ragazzo esaltato che parte per la Siria corrispondono milioni che vanno a scuola, leggono libri, ascoltano musica, guardano tv, pensano e vivono in Europa.
Nonostante l’orrore e la paura, nonostante il sangue che è stato e sarà versato, il fanatismo islamico appare culturalmente sconfitto perché ad armarlo, più che i valori tradizionali dell’islam, è un desiderio secolarizzato.
Gli attentatori assomigliano a Mark Chapman, l’assassino di John Lennon e a Taxi Driver, alle decine di poveretti che per essere notati fanno stragi nei college.
Cherif Kouachi era un rapper fallito.
Anche John l’inglese è un rapper.
Hanno deciso di compiere azioni eclatanti perché il loro paradiso era anche diventare famosi.