Matteo e i corpi intermedi
In due anni gli elettori del PD sono aumentati di quasi 3 milioni, mentre gli iscritti sono scesi sotto 100 mila, cinque volte meno che nel 2012, quando erano 505.072. È il segno più eclatante della crisi dei cosiddetti corpi intermedi, cioè di quelle formazioni sociali chiamate a rappresentare i bisogni e le istanze dei cittadini – partiti, sindacati, associazioni di categoria, grandi giornali, programmi tv – che hanno costituito per decenni l’ossatura della democrazia italiana. È una crisi di numeri, ma anche di credibilità che travolge anche gli organi di informazione – il pubblico di giornali e talk show evapora di settimana in settimana – e inghiotte ogni categoria, anche quelle che fino a ieri parevano intoccabili, come la magistratura.
Molti reagiscono all’oggettiva perdita di centralità e potere, accusando il primo ministro di voler fare tutto da solo, di essere autoritario, demagogico e populista (oltre che molto maleducato). Matteo Renzi, dal canto suo, sembra Maciste. Non passa giorno che non si azzuffi con qualcuno. Alle critiche di direttori di giornali, sindacati, banchieri e burocrati, oppone un’unica invariabile risposta: «Mentre il Paese andava in rovina, voi dov’eravate?». Dopodiché aggiunge, invariabilmente: «Andrò avanti senza guardare in faccia nessuno. La gente è con me».
Si tratta, tecnicamente, di una risposta populista, perché scavalca ogni intermediazione per rivolgersi al popolo. Ma gli accenti populisti di Renzi, che indubbiamente esistono, nascono anche da questa crisi di rappresentanza e in qualche misura la colmano. E pongono una serie di domande. I famosi corpi intermedi sono ancora intermedi? Sono ancora in grado di mediare tra società e politica? Rappresentano ancora qualcuno oltre a se stessi? Renzi e lo straordinario consenso di cui gode dichiarano che non è più così, o lo è sempre meno: la loro immobilità è durata troppo a lungo per potere ancora farsi interpreti di una società che intanto è profondamente cambiata. La crisi italiana non è soltanto economica, è strutturale. Quando i poteri forti diventano poteri morti, il populismo è la sola opzione possibile.
La vera battaglia politica si gioca su questo terreno: sul desiderio dei vecchi poteri di contare ancora qualcosa e sul bisogno dei nuovi di sbarazzarsene. Comunque la si pensi, e indipendentemente dalle intenzioni dei protagonisti, si tratta di uno scontro che rischia di essere ingovernabile. Quando scatta l’altra tipica accusa a Renzi – quello fa solo annunci, è solo un ragazzo arrogante, incompetente e inconcludente – la linea dello scontro si sposta dai corpi intermedi al Parlamento, dalla società alla democrazia. Perché è evidente che la velocità delle riforme dipende in primo luogo dalla dialettica politica, dalla necessità di trovare un punto di incontro tra i partiti, dai regolamenti di Camera e Senato. Dipende, insomma, dai tempi della democrazia. Il rischio è che qualcuno incominci a chiedersi – e qualcuno lo farà presto – se questi tempi siano compatibili con le urgenze della crisi. Se la democrazia sia ancora un lusso che in Italia ci si può permettere.