Le robbe magnative
Anche se è in marmo bianco, il Palazzo di Giustizia di Milano assomiglia al monolite di Kubrick. Se ne sta lì, in mezzo allo spazio, immobile e silenzioso come la stele nera di Odissea 2001. È un monito, ma non si sa per chi. Costruito tra il 1932 e il 1940, diciottesimo anno dell’era fascista, è considerato un esempio straordinario del razionalismo monumentale di Marcello Piacentini. In alto, ai lati dell’entrata, ci sono due immense iscrizioni in latino. Sull’avancorpo di sinistra c’è scritto: «Iurisprudentia est divinarum atque humanarum rerum notitia iusti atque iniusti scientia», la Giurisprudenza è la scienza degli affari divini e umani, dei fatti giusti e ingiusti. Degli «affari divini», addirittura.
Nei mesi di Mani pulite davanti al Palazzo si radunava sempre una folla adorante e indignata. Il giornalista Paolo Brosio, che aspettava di farsi maltrattare da Emilio Fede per il TG4, era circondato da persone che gridavano «Milano ladrona, Di Pietro non perdona». Alcuni erano molto di destra, altri molto di sinistra. Entrarono in contatto in quei giorni e non si lasciarono più. Ma la vita di Milano ruota da sempre intorno alla presenza immobile della Giustizia, alla sua necessità e impossibilità. A poche centinaia di metri dal Palazzo, dove oggi c’è la sede dei vigili urbani, stava il palazzo del Capitano di giustizia con annesse carceri e casa del boia. E un chilometro più a nord, poco prima della biblioteca di Marcello Dell’Utri, sorgeva il Senato, la più alta istituzione della Milano spagnola che poteva ratificare o opporsi alle leggi del Gobernador del Milanesado, ma funzionava soprattutto da Tribunale civile e penale.
Qualche giorno fa il Corriere della Sera ha titolato: «Caviale e champagne, quei 2 milioni spesi dai consiglieri della Regione». Nell’articolo Giuseppe Guastella mischia senza soluzione di continuità e gradazioni morali, barattoli di Nutella e caviale, bottiglie di vino da 9 euro e pranzi da 120, Brunelli di Montalcino e coppette di gelato da 2,50. A prescindere dalle differenze (doverose), fa impressione che due terzi dei rimborsi dei consiglieri regionali lombardi se ne siano andati in roba da mangiare. Alla gola non resiste nessuno, neanche gli onesti, figurarsi i corrotti. Oggi meno che mai. Da Eataly, che ha appena aperto, c’è una fila che non finisce più, l’Expo è dedicato al cibo, i negozi di gastronomia rimpiazzano ovunque quelli di vestiti e alle cene non si parla d’altro che di mangiare. Anche negli anni Ottanta il cibo era importante. Tutti parlavano di cucina (ma non di prodotti tipici, a quei tempi la novità era la nouvelle cuisine) e i ristoranti erano pieni di assessori stupefatti e soddisfatti del lusso loro capitato. A volte tra i piedi tenevano valigette 24ore che si immaginavano rigonfie di banconote. In uno spot del PSI, poco prima del crollo, la gente comune commentava la situazione politica. Un vecchietto sospirava: «L’è tutt un magnamagna».
Mi è tornata in mente una storia raccontata da Romano Canosa in La vita quotidiana nella Milano spagnola. C’è un tale che arriva dal contado per vendere le sue cose in città, ha bisogno di autorizzazioni, ma nessun funzionario lo riceve. Così decide di «caminar per le pedate altrui», cioè di seguire l’esempio degli altri, e al processo testimonia: «Comprai delle robbe magnative, cioè lingue salate, salcizoni, pani di zucchero, trutte, anguille… et gli apresentai agli infrascritti, cioè al signor Leonardo Herrera, che faceva l’officio di Gran Cancellierr, al segretario Fuica al qual più donai un par de guanti con cinque scudi dentro». Non ottenendo in cambio l’autorizzazione che cercava, il poveraccio decide di fare denuncia, ma viene processato e condannato a essere scudisciato in pubblico. Poco, però, perché le sue accuse sono vere.
Le «robbe magnative» del Seicento, come i capponi di Renzo per l’Azzeccagarbugli, come il caviale e lo champagne di oggi sono il simbolo della resistenza strenua delle cose gustose a ogni sazietà, della fame anche quando la fame non c’è più e dell’avidità anche quando non si ha più bisogno di niente. Mangiare, divorare, trangugiare, sbafare, abboffarsi, sgranocchiare, masticare resistono strenuamente agli sforzi della modernità di trasformarli in metafore arcaiche. La corruzione passa ancora dalla lingua, attraversa la gola e arriva agli intestini. È grottesco e insieme misteriosamente rassicurante. Fa contemporaneamente scandalo e pena.
Pochi giorni prima dei rimborsi per il caviale, è morto Gerardo D’Ambrosio, il magistrato che istruì il processo sulla strage di piazza Fontana e la cui versione venne sintetizzata nella formula del «malore attivo» per descrivere la morte di Pino Pinelli, il ferroviere anarchico precipitato da una finestra della Questura il 15 dicembre 1969, tre giorni dopo la bomba alla Banca dell’Agricoltura. Qualche anno dopo D’Ambrosio si occupò del crack del Banco Ambrosiano e negli anni novanta fu il vice di Francesco Saverio Borrelli nel pool di Mani pulite. È stato un uomo perbene, rispettato e autorevole, nel 2006 è stato anche eletto senatore con i DS, ma la sua vita professionale dimostra che la giustizia è sempre un tentativo, e quasi sempre si rivela un fallimento tanto per chi giudica quanto per chi viene giudicato. Per questo non può mai essere tronfia e priva di dubbi come il Palazzo di Giustizia di Milano, che infatti è un monumento fascista.