Cameron, l’immigrazione e l’Unione Europea
Il tema dell’immigrazione e quello del futuro del Regno Unito all’interno dell’Unione Europea sono due punti strettamente connessi nell’agenda politica del primo ministro britannico David Cameron, da più di un anno ormai. Il primo passo è stato l’annuncio fatto nel gennaio 2013 di voler proporre un referendum – in caso di una rielezione alle prossime elezioni politiche, in programma nel maggio 2015 – sulla permanenza del paese all’interno dell’UE, seguito dalla presentazione alla Camera dei Comuni, il 10 ottobre scorso, dell’Immigration Bill: una legge che fa parte di un piano (molto discusso) di contrasto all’immigrazione clandestina, con l’obbiettivo di riformare il sistema degli allontanamenti e degli appelli “rendendo più facile e più veloce allontanare coloro che non hanno il diritto di essere qui”.
La legge prevede una serie di nuovi controlli: sui contratti di affitto, che dovrebbero essere negati a quei cittadini che non sono in grado di dimostrare di essere nel Regno Unito legalmente, ulteriori verifiche sui datori di lavoro e altre ancora a carico delle banche. Si vuole inoltre contrastare il cosiddetto “turismo della salute”, cioè l’utilizzo del sistema sanitario pubblico britannico (NHS, National Health Service) da parte dei cittadini stranieri. Nel luglio del 2013 il ministro della Sanità Jeremy Hunt aveva parlato di un contributo di circa 200 sterline l’anno (235 euro) per tutti gli immigrati provenienti dai paesi che non fanno parte dell’Unione Europea, inclusi gli studenti.
Sono state supposte inoltre delle misure contro la libera circolazione, provvedimenti a favore del blocco dei sussidi di disoccupazione nei primi tre mesi senza lavoro per gli immigrati e la sospensione dei contributi sulla casa. Fino all’espulsione per un anno verso chi non dimostra di cercare attivamente un lavoro. Insomma, una serie di norme previdenziali più severe. Lo scopo è quello di rallentare, per così dire, l’ingresso di cittadini europei provenienti dai paesi (su tutti Bulgaria e Romania) che dal primo gennaio 2014 hanno acquisito gli stessi diritti di quelli che già facevano parte dell’UE, dopo cinque anni di transizione.
Guardando al futuro, le misure dovrebbero riguardare tutti i cittadini dei paesi che entreranno a far parte dell’Unione Europea, limitandone di fatto la libera circolazione. Con il passare dei mesi il tema dell’immigrazione è diventato il punto politico più dibattuto dai partiti, e rappresenta oggi il principale punto di scontro in vista delle elezioni europee del maggio prossimo. Cameron ha annunciato l’obiettivo di ridurre a meno di 100mila unità l’immigrazione netta annuale di lungo periodo: si tratta della differenza tra chi si trasferisce nel Regno Unito e chi invece decide di lasciare il paese.
Il buon risultato ottenuto dal Partito per l’Indipendenza del Regno Unito (UKIP, un partito antieuropeista) alle elezioni locali di diverse contee del maggio 2013 – considerato all’epoca un test importante per la coalizione di governo guidata da Cameron – ha contribuito in larga parte a rafforzare le posizioni del Partito Conservatore. O meglio, a forzare l’agenda politica del governo. Su questi temi la posizione del leader del Partito per l’Indipendenza del Regno Unito, Nigel Farage, è stata ancora più netta (5 anni di blocco dei sussidi agli immigrati che non hanno un lavoro), a cui ha fatto seguito quella del sindaco di Londra, Boris Johnson (2 anni di blocco dei sussidi).
L’iter parlamentare del Referendum Bill, il disegno di legge che prevede l’istituzione di un referendum entro il 2017, così come era stato formulato dal Partito Conservatore, è stato però bloccato. La discussione si è arenata alla camera alta del Parlamento britannico a causa di un voto contrario a una serie di norme procedurali da parte del Partito Laburista e dei Liberal Democratici (che fanno parte della coalizione di governo guidata da Cameron).
Nella sostanza il Partito Laburista non è sembrato essere del tutto contrario all’istituzione del referendum (a dividere i due partiti sono i tempi, in quanto i laburisti non vorrebbero neanche parlarne prima delle elezioni politiche del 2015). D’altra parte invece l’idea di come Cameron concepisce il rapporto tra il Regno Unito e l’Unione Europea è stata coerente in tutti questi mesi, fin dal suo discorso alla nazione del 23 gennaio 2013. E recentemente ha ribadito: «Dal Regno Unito non vogliamo un’unione sempre più stretta con la UE, vogliamo avere degli scambi commerciali e cooperazione». Il tema di un riposizionamento del Regno Unito all’interno dell’Unione Europea e il tema dell’immigrazione sono stati portati avanti dal Partito Conservatore in modo interconnesso per cercare di poter rinegoziare una serie di altre questioni, politiche ed economiche, nei confronti delle istituzioni europee.
Oltre all’andamento dei sondaggi in vista delle elezioni per il rinnovo del Parlamento Europeo – a favore del Partito Laburista e con un aumento del gradimento nei confronti del partito di Nigel Farage (intorno al 13 per cento secondo le ultime rilevazioni) – Cameron deve anche gestire la posizione antieuropea di molti esponenti del suo partito: il 12 gennaio scorso 95 parlamentari conservatori hanno scritto una lettera al primo ministro per chiedere che la Camera dei Comuni, la camera bassa del Parlamento, potesse avere la possibilità di porre un veto nazionale sulla legislazione presente e futura dell’Unione Europea, sulle materie che ledono gli “interessi nazionali”. La questione però si è chiusa subito: William Hague, il ministro degli Esteri, ha spiegato che si tratta di una proposta inaccettabile, che renderebbe impraticabile la logica stessa del mercato unico.
Fino alla fine del 2013 i cittadini bulgari e romeni non hanno avuto libertà di accesso nel Regno Unito. Quello che il Partito Conservatore (e parte dell’opinione pubblica) teme è che ci possa essere un’improvvisa “invasione”. A sostegno di questa tesi viene riproposto l’esempio di quanto accaduto con gli immigrati provenienti dalla Polonia: ci si attendeva che ne arrivassero pochi, mentre furono poi centinaia di migliaia. Molti però, soprattutto tra i partiti di opposizione, sostengono che proprio quei cittadini (e lavoratori) abbiano fatto la loro parte per contribuire alla crescita economica del paese, che lentamente si sta iniziando a vedere.
I ministri dell’Interno di alcuni paesi europei si sono più volte incontrati negli ultimi due mesi per discutere la questione dell’immigrazione illegale. Bisogna dire che Cameron ha trovato alcuni appoggi importanti, seppur con toni e termini molto più cauti rispetto al “giro di vite” sulle restrizioni che il suo partito propone: all’inizio dell’anno Theresa May, ministro dell’Interno del Regno Unito, ha ottenuto un parziale sostegno sulla questione dell’immigrazione da parte della Germania, dell’Austria e dell’Olanda. Tutti e tre i paesi hanno scritto una lettera alla Commissione Europea per chiedere alcune restrizioni sull’accesso alle prestazioni sociali per gli immigrati.
La richiesta di questi quattro paesi di voler rivedere quanto previsto dalla direttiva del 2004 sull’immigrazione (e sull’immigrazione illegale), ha però alla base delle motivazioni diverse. La Germania avrebbe il timore che possa aumentare nei prossimi anni il numero delle popolazioni rom dirette verso le sue grandi città, mentre l’Olanda sarebbe invece preoccupata di un aumento dei contratti di lavoro che potrebbero essere stipulati con gli immigrati arrivati illegalmente (senza il rispetto di una serie di norme comunitarie).
Oltre al tema della preoccupazione sociale, il Partito Conservatore ha sostenuto a lungo le ripercussioni che la libera circolazione di nuovi immigrati potrebbe avere sull’economia del paese, sia per quanto riguarda il mercato del lavoro, sia per quanto riguarda la sostenibilità del welfare. Su questi punti sono stati elaborati diversi studi, a cui si è rifatta la stessa Commissione Europea, per sostenere che la tesi del governo Cameron non stava in piedi. Viviane Reding, commissario europeo per la giustizia, ha replicato a Cameron sostenendo che la libertà di circolazione nell’Unione Europea non è un tema negoziabile e che la libera circolazione delle persone rappresenta «un pilastro fondamentale del libero mercato».
Un rapporto elaborato dal National Institute of Economic and Social Research (NIESR) – commissionato dal Foreign and Commonwealth Office, un dicastero del Regno Unito responsabile della promozione degli interessi del paese all’estero – afferma che le tesi del Partito Conservatore sono effettivamente discutibili. Si è cercato inoltre di dimostrare con una serie di analisi che il Regno Unito non rappresenta la meta principale dei migranti dei due paesi in questione, tanto più se equiparata alle cifre che si registrano in Spagna, Italia e Germania. Inoltre, la Commissione Europea ha spiegato – tramite la pubblicazione di un rapporto – che le paure di Cameron nei confronti degli immigrati nel Regno Unito, quelli provenienti dai paesi europei, sono infondate perché il numero dei contribuenti è più alto di quello dei beneficiari di prestazioni sociali.
José Manuel Barroso, presidente della Commissione Europea, durante un discorso tenuto al Parlamento Europeo il 15 gennaio scorso ha affrontato il tema dell’immigrazione in Europa. Pur senza fare il nome del Regno Unito, ha fatto intendere qual è la sua posizione nei confronti dei paesi che intendono limitare la circolazione dei cittadini europei, definendo le misure ipotizzate delle “strette scioviniste”. E definendo come “stereotipi e miti” le paure alimentate da alcuni governi nei confronti degli immigrati.