Una settimana in Europa
Questo blog nasce dall’idea di voler aggregare le notizie che riguardano l’Unione Europea, le sue istituzioni, le leggi approvate dal Parlamento Europeo (e quelle che saltano per i mancati accordi politici), semplici storie e discussioni, la campagna elettorale – che non sembra ma è già iniziata – in vista delle prossime elezioni europee del maggio prossimo (22-25 maggio). E che per un motivo o per l’altro vengono poco approfondite.
Poi, non necessariamente tutto quello che succede “in Europa” deve essere raccontato da un nostro punto di vista. Cioè dal punto di vista italiano. Un esempio: dell’incontro tra il presidente del Consiglio italiano Enrico Letta e il presidente francese François Hollande abbiamo letto tante cose sugli scontri che ci sono stati a Roma, tra i manifestanti e le forze dell’ordine, ed era anche giusto così. Ma poi magari qualcuno non è riuscito a capire di cosa hanno parlato. Se solo della linea ad alta velocità o anche di altro.
Di cosa hanno parlato Letta e Hollande, oltre alla TAV
Enrico Letta e François Hollande si sono incontrati per un summit bilaterale tra Italia e Francia il 20 novembre. Nella conferenza stampa, dopo l’incontro, Letta ha detto che la continuazione della costruzione della linea ad alta velocità Torino-Lione, definita da entrambi i paesi una priorità, va avanti. Hollande se l’è cavata ancora meglio, con una battuta: «Non siamo alla fine del tunnel, siamo all’inizio del tunnel».
Il presidente francese ha annunciato che nel 2014 sarà sottoscritta la gara d’appalto e che i lavori inizieranno tra la fine dell’anno prossimo e l’inizio del 2015. Al finanziamento dell’opera parteciperà anche la Commissione Europea, come annunciato il 17 ottobre: saranno finanziati fino al 50 per cento gli studi, le indagini geognostiche, i lavori preparatori; sarà finanziato fino al 40 per cento dei lavori veri e propri di costruzione del tunnel che in parte sono già iniziati, dopo però che Italia e Francia avranno comunicato ufficialmente la loro parte di investimento.
Passiamo a quello che interessava davvero Hollande: l’unione bancaria europea a cui, nei suoi desideri, dovrebbe seguire l’istituzione di un meccanismo di prestito congiunto a livello europeo, per finanziare gli investimenti e favorire una ripresa dell’economia. Il tema è arrivato recentemente a una svolta importante, con l’annuncio della Banca Centrale Europea (BCE) di un’operazione ispettiva dei bilanci delle 128 maggiori banche dei paesi dell’UE, su cui la BCE comincerà ad avere poteri di supervisione a partire dalla fine del 2014, al posto delle autorità nazionali. Anche se, in sostanza, soltanto del primo di tanti e lenti passi verso l’unione bancaria. Su questo punto Letta si è detto d’accordo, per lui l’unione bancaria è «assolutamente necessaria».
Hollande si è spinto ancora più avanti: durante la conferenza stampa che ha seguito l’incontro ha detto che bisogna arrivare a una governance della zona euro più forte, indicando come soluzione l’istituzione di un presidente dell’Eurogruppo – cioè l’organismo che riunisce i ministri dell’Economia e delle Finanze degli Stati membri che adottano l’euro – nominato per un periodo più lungo e che lavori a tempo pieno. Oggi invece, il presidente dell’Eurogruppo – nominato a maggioranza dai ministri degli Stati membri – rimane in carica per due anni e mezzo e può mantenere anche altre cariche: per esempio l’attuale presidente, Jeroen Dijsselbloem, è anche ministro delle Finanze del governo olandese. Su quest’ultimo punto è d’accordo anche il governo tedesco.
Letta e Hollande hanno preannunciato per dicembre un vertice dell’Unione Europea per cercare di trovare un accordo su un meccanismo che serva a ricapitalizzare le banche in difficoltà: la proposta sembra essere ancora quella di una ricapitalizzazione diretta tramite l’European Stability Mechanism, conosciuto comunemente come “Fondo salva Stati” . Su questo punto invece la Germania si oppone, perché contraria a condividere la responsabilità (economica) per il salvataggio delle banche di altri paesi. Ogni volta viene ripetuta la stessa storia: per poterlo fare il governo tedesco deve cambiare alcuni punti della propria legislazione nazionale, al momento intoccabili.
Ucraina sì Ucraina no
Il fatto politico più importante e interessante – che si lega a molte altre questioni economiche e geopolitiche protratte per mesi – è quanto sta succedendo in Ucraina. Domenica 24 novembre più di 100mila persone hanno manifestato a Kiev, la capitale del paese, contro la decisione del governo di non concludere un importante accordo di libero scambio con i paesi dell’Unione Europea, quando invece sembrava cosa fatta.
«Voglio vivere in Europa» e «L’Ucraina è parte dell’Europa» sono stati gli slogan ripetuti dai manifestanti. Il presidente Viktor Yanukovych aveva deciso il 21 novembre di sospendere il processo di preparazione, che avrebbe portato alla firma di un accordo con l’Unione Europea da concludere il 28 e il 29 novembre nella riunione in programma a Vilnius, in Lituania, il paese che detiene la presidenza semestrale dell’UE. La questione, su cui da mesi i partiti di maggioranza e opposizione stanno discutendo, è molto importante: il posizionamento internazionale del paese. Se stare dalla parte dell’Unione Europea o dalla parte della Russia. Per fare pressione, il governo russo ha sempre fatto leva sulle importazioni di gas, necessarie all’Ucraina, e presentato una serie di proposte per convincere il governo ucraino a rimanere nella sua sfera di influenza, per esempio proponendo un’unione doganale.
Abbiamo detto che le questioni coinvolte in questa storia sono diverse e si protraggono da mesi. Tra le altre, c’è sicuramente quella che riguarda l’ex primo ministro Yulia Tymoshenko, in prigione dall’agosto del 2011 con l’accusa di abuso di potere. Una questione di politica interna, che però si lega a determinate richieste dell’Unione Europea, fondamentali per la firma dell’accordo: la sua scarcerazione come elemento vincolante.
Il presidente Yanukovych, da sempre contrario alla scarcerazione, si era spinto al di là di ogni previsione. Il 18 ottobre si era detto disposto ad accettare le richieste europee, tanto che il parlamento avrebbe approvato nel giro di poco tempo una legge che avrebbe permesso la scarcerazione di Yulia Tymoshenko: l’ex primo ministro doveva essere trasferito in Germania per curarsi. La votazione della legge è stata sospesa e il 21 novembre il Parlamento ucraino l’ha bocciata, con la decisiva astensione del Partito delle Regioni di cui fa parte Yanukovych. Dopo il voto, su diversi siti ucraini ha iniziato a circolare una foto emblematica sulle conseguenze di quel voto: un’immagine di Jan Tombiński, ambasciatore dell’Unione Europea a Kiev, che assiste alla proclamazione del voto con la testa tra le mani, in un atteggiamento quasi disperato.
Due ore dopo il governo ucraino ha pubblicato un comunicato in cui c’era scritto che l’Ucraina avrebbe lavorato a nuove misure e a nuovi progetti, per un accordo con la Russia e con i paesi che formano il Community of Independent States: Bielorussia, Armenia, Azerbaijan, Kazakistan, Moldova, Tajikistan, Turkmenistan, Uzbekistan. Ma non solo: il governo ucraino ha fatto sapere di voler proporre sia all’UE sia alla Russia la formazione di una commissione a tre, per risolvere la questione. Diciamo che i funzionari europei ne sono rimasti più che sbalorditi.
Il comportamento dell’Ucraina può avere conseguenze maggiori di quelle che lo stesso presidente Yanukovych immagina, come sottolineano a Bruxelles e a Washington. In ballo infatti ci sono gli aiuti del Fondo Monetario Internazionale (FMI), che difficilmente saranno concessi in caso di un mancato accordo con l’Unione Europea. Parliamo di un prestito di circa 11 miliardi di euro.
Per questo Linas Linkevičius, ministro degli Esteri della Lituania, ha detto che è bene aspettare e che la situazione sarà molto «dinamica» fino al summit di Vilnius. E Catherine Ashton, l’Alto rappresentante dell’UE per gli affari esteri, ha voluto rimarcare questo punto sottolineando che l’accordo con l’Ucraina avrebbe velocizzato le procedure con l’FMI. In ballo c’è anche un prestito dell’UE all’Ucraina da 610 milioni di euro, che per il momento viene congelato. L’Ucraina ha debiti per circa 44 miliardi di euro e nelle riserve a valuta straniera sono rimasti soltanto circa 16 miliardi di euro, con una valutazione dei crediti simile a quella di Grecia e Cipro.
Cittadinanza maltese vendesi
La cittadinanza di Malta si può comprare per 650mila euro. L’11 novembre la Camera dei Rappresentanti (il parlamento unicamerale maltese) ha approvato un progetto di legge che permetterà all’interno dell’Individual Investor Programme (IIP) di comprare la cittadinanza, con relativo passaporto per accedere allo spazio Schengen, cioè l’area all’interno della quale vige la libera circolazione di merci e persone dei cittadini appartenenti ai paesi che hanno aderito al trattato.
Il provvedimento passato con 37 voti a 30 è stato molto contestato, soprattutto dal Maltese Nationalist Party: i loro emendamenti per imporre una soglia massima di beneficiari e di rinunciare alla clausola di segretezza sono stati respinti. Per entrare in vigore però il provvedimento deve essere firmato dal presidente George Abela. Secondo quanto riporta Malta Today il governo maltese ha previsto che questo processo dovrebbe far incassare circa 30 milioni di euro.
La questione ha suscitato parecchie polemiche nelle istituzioni europee, soprattutto dopo le lunghe discussioni in cui è spesso coinvolta Malta sull’immigrazione. Soltanto cinque mesi fa Joseph Muscat, il primo ministro maltese, aveva avuto forti scontri con l’Unione Europea per aver voluto respingere una barca di migranti provenienti dalla Libia, su cui era intervenuta anche la Corte europea dei diritti dell’uomo. E spesso si era lamentato del fatto che il suo paese fosse considerato un “cuscinetto” per i migranti del Mar Mediterraneo, senza l’aiuto necessario delle istituzioni europee. Ora, sembra prevalere invece un altro tipo di ragionamento con la messa in vendita di importanti diritto, come il lavoro e la residenza, inclusi nel conferimento della cittadinanza.
Una Turchia Tory
Negli equilibri geopolitici un ruolo importante viene giocato dalla Turchia, per una sua futura adesione all’UE. Quanto successo la scorsa settimana rappresenta un tassello importante, forse sottovalutato. Il Partito per la Giustizia e lo Sviluppo del primo ministro turco Recep Tayyip Erdoğan ha annunciato il 12 novembre che si unirà alla famiglia politica del Gruppo dei Conservatori e dei Riformisti Europei, che raccoglie i partiti conservatori – compreso quello del primo ministro britannico David Cameron – con posizioni principalmente avverse all’Europa e antifederaliste, anche se più moderate rispetto ad altre formazioni politiche di estrema destra.
Il partito di Erdoğan ha scelto quindi di abbandonare l’idea di unirsi al gruppo del Partito Popolare Europeo, molto più in linea con le posizione istituzionali europee, soprattutto economiche: Mevlüt Çavuşoğlu, vicepresidente dell’AKP turco è stato nominato vice presidente, insieme ad altri tre esponenti di altri partiti. Al gruppo hanno aderito inoltre un partito romeno e uno delle Isole Fær Øer. La posizione del partito di Erdoğan verso un’adesione della Turchia all’Unione Europea è cambiata molto negli ultimi mesi: inizialmente favorevole (e formalmente ancora lo è) si è di fatto alleato con il gruppo più euroscettico. D’altra parte il Partito Repubblicano del Popolo, il principale partito d’opposizione turco, sta portando avanti delle trattative per affiliarsi al Partito del Socialismo Europeo (PSE).