La narrazione interrotta del Terzo settore

Alcune settimane fa è uscito un gran bel libro, intitolato “Economia e narrazioni”.
Lo ha scritto Robert James Shiller, premio Nobel per l’economia nel 2013, già autore del celebre best seller “Euforia irrazionale” e tra i pochissimi economisti a prevedere la grande crisi finanziaria del 2008.

Shiller è uno dei massimi esponenti della cosiddetta economia comportamentale, un filone degli studi economici relativamente recente (che ha già visti premiati con il Nobel anche Daniel Kahneman nel 2002 e Richard Thaler nel 2017) che va affermandosi sempre di più, soprattutto tra i giovani economisti, e che sfata tutta una serie di luoghi comuni di cui traboccano tanti manuali di economia, a cominciare dal presupposto della razionalità e della massimizzazione del proprio tornaconto che, secondo l’ortodossia economica, è sempre alla base di ogni scelta dell’essere umano (che finisce con il coincidere con l’homo oeconomicus).

No, sostengono gli economisti comportamentali, noi siamo essenzialmente creature irrazionali preda di pregiudizi che condizionano ogni nostra decisione, a prescindere da quanto siamo esperti. Quindi è inutile stare lì a perdere tempo con il solito ed errato presupposto della razionalità, bisogna indagare altrove, contaminarsi con altre discipline, mettere a punto strumenti di analisi inediti che non siano scontate e inutili equazioni matematiche.

In linea con questa suggestiva e decisamente più realistica chiave di lettura delle dinamiche economiche si pone il libro “Economia e narrazioni”.
Qui Shiller sostiene e dimostra come spesso ci siano idee e convinzioni (vere o false è secondario) che, diffondendosi tra la gente come narrazioni, possono diventare virali e condizionare in modo determinante l’andamento dell’economia.

Scrive Shiller: «Nell’usare l’espressione “economia narrativa” mi concentro su due elementi, il contagio delle idee sotto forma di storia tramite il passaparola e gli sforzi compiuti dalle persone per creare nuove storie contagiose o per renderne una più contagiosa di un’altra». E poi aggiunge: «Molti economisti contemporanei tendono a pensare che le narrazioni popolari esulino dal loro campo di interesse (preferendo dedicarsi alla creazione di astratti modelli teorico-matematici, nda)… ma per comprendere un’economia complessa dobbiamo tenere conto di molte storie e idee popolari contrastanti che influiscono sulle decisioni economiche, a prescindere che si tratti di idee valide o errate».

In sostanza, spiega Shiller facendo numerosi esempi concreti, se non comprendiamo come certe narrazioni, anche volutamente create e messe in circolo ad arte, influenzino le nostre opinioni, le nostre scelte, i nostri investimenti, il dibattito pubblico, il decisore pubblico, allora non dobbiamo sorprenderci se poi, da un momento all’altro, queste stesse narrazioni possano interrompersi bruscamente (scoppia una bolla immobiliare, va in crisi un comparto industriale, un’inchiesta giornalistica rivela retroscena inediti di un’operazione finanziaria, ecc.) e rivelare l’inconsistenza che le accreditava.

Trovo particolarmente illuminanti le tesi di Shiller, non solo per quanto riguarda gli studi economici, chi li conduce e come invece dovrebbe condurli. Ma anche per capire ciò che è accaduto finora al Terzo settore e, più in generale, alla società civile.
Negli ultimi anni c’è stata un po’ dappertutto una narrazione che li ha descritti quasi all’unanimità come il “bene”, in contrapposizione alla politica e a un certo tipo di economia speculativa.

Quante volte e da quali alti pulpiti abbiamo sentito in questi anni la narrazione di una società civile organizzata come bacino prezioso cui attingere per rinnovare la classe politica, salvo tacere sui risultati modesti o insignificanti conseguiti ogni qualvolta questo travaso è avvenuto (ed è avvenuto molto di frequente)?

Quante volte il nonprofit è stato descritto come un settore innovativo, destinato a crescere di continuo ma, purtroppo (anche le lamentele fanno parte della narrazione), troppo spesso escluso dai tavoli che contano?

Quante volte la retorica del buonismo ha avuto la meglio su ogni seppur flebile accenno di critica costruttiva a un Terzo settore entrato, come scriveva già un paio di anni fa il giornalista Marco Panara, «in una fase di declino, di perdita di ruolo e di legittimazione perché all’interno dei corpi intermedi si sono consolidati sistemi di potere autoreferenziali, burocrazie inamovibili, notabilati e rendite che li hanno imbolsiti, sclerotizzati, resi meno capaci rispetto ai decenni precedenti di interpretare i bisogni nuovi di una società che cambiava rapidamente»?

Insomma, una narrazione a senso unico ed encomiastica del Terzo settore ha dominato in questi anni. Né quei pochi campanelli di allarme suonati per metterlo in guardia da certe derive hanno avuto granché ascolto. Almeno fino a poco più un mese fa. Quando, a conclusione dei lavori dell’incontro internazionale di Assisi “The economy of Francesco”, nel suo saluto finale Papa Francesco ha sottolineato che, per contrastare la ricerca del profitto immediato che ignora i costi umani, sociali e ambientali che causa, «non basta neppure puntare sulla ricerca di palliativi nel terzo settore o in modelli filantropici. Benché la loro opera sia cruciale, non sempre sono capaci di affrontare strutturalmente gli attuali squilibri che colpiscono i più esclusi e, senza volerlo, perpetuano le ingiustizie che intendono contrastare».

Diciamolo pure: apriti cielo. Era il 21 novembre scorso, una data destinata a diventare uno spartiacque per il nonprofit.

Il Papa spiazzò tutti. E da allora si è interrotta ogni narrazione apologetica sul terzo settore. Le principali voci narranti le sue “magnifiche sorti e progressive” di colpo sono diventate silenti, non hanno rilasciato più interviste, hanno smesso di pronunciarsi. Qualcuno ha provato a ergersi a ermeneuta delle parole del Pontefice sostenendo che in realtà il Papa intendeva riferirsi al modello filantropico di matrice statunitense che è ben diverso dal terzo settore italiano. Ma era meglio se taceva in quanto la «o» del Papa è inclusiva di entrambi i modelli e, comunque, provare ad aggrapparsi a un simile cavillo pensando non sia accaduto niente rende ancor più l’idea di come certi esponenti del Terzo settore siano completamente avulsi dalla realtà e impermeabili a ogni critica.

Sostiene Shiller nel suo libro che il contagio della narrazione «raggiunge il culmine della potenza quando le persone sentono di avere un legame personale con un individuo che svolge un ruolo da protagonista».

Papa Francesco è la persona che svolge un ruolo da protagonista con la quale probabilmente di più al mondo si sente di avere un legame personale. Quindi le sue parole pronunciate ad Assisi diventeranno sicuramente contagiose di un’altra narrazione del Terzo settore, molto più autentica e incentrata sui suoi pregi ma anche sui suoi difetti, ormai improcrastinabilmente da correggere. Finalmente.

Francesco Maggio

Economista e giornalista, già ricercatore a Nomisma e a lungo collaboratore de Il Sole24Ore, da molti anni si occupa dei rapporti tra etica, economia e società civile. Tra i suoi libri: I soldi buoni, Nonprofit (con G.P. Barbetta), Economia inceppata, La bella economia, Bluff economy. Email: f.maggio.fm@gmail.com