Parliamo di “post economia”

Esce oggi il mio nuovo libro intitolato Post economia (Armando editore). Ecco in anteprima la premessa.

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Nell’era dei “post” finora grande assente è stata la post economia. Si è scritto e discusso tanto in questi anni di post modernità, post verità, post globalità, post democrazia, post ideologia, post politica, post capitalismo, post industriale, post familiare, persino di post umano e di numerosi altri post ancora, ma non di post economia. Perché?

Me lo sono chiesto più volte prima di decidere di misurarmi con questa espressione (prima ancora che questione) evidentemente fluida, non riconducibile a un significato ben preciso e condiviso, ma certamente evocativa (forse più di tutti gli altri post appena citati) dei cambiamenti epocali che stiamo vivendo.

E la risposta che ogni volta mi sono dato è stata laconicamente sempre la stessa: perché, lo dico senza troppi giri di parole, è una rogna.

Di solito, se uno può, tendenzialmente le rogne le evita. Se poi si tiene conto del fatto che ad occuparsene dovrebbero essere in primis gli economisti, notoriamente non certo campioni di coraggio (e umiltà) intellettuale, si può capire facilmente perché si tengano alla larga.

Perché occuparsi di post economia può essere una fastidiosa seccatura?

Provo a spiegarlo subito, ricorrendo a un breve parallelismo, però alla rovescia.

Isaiah Berlin sosteneva, a proposito della filosofia di cui fu insigne cultore, che il suo oggetto «consiste in larga misura non nei contenuti dell’esperienza, ma nei modi in cui a questa si guarda, nelle categorie permanenti o semipermanenti nei cui termini l’esperienza è concepita e classificata».

Con l’oggetto dell’economia invece accade quasi sempre il contrario: si guarda al contenuto dell’esperienza (per esempio alla circostanza che un’impresa esporti o delocalizzi, che una banca fallisca o confluisca in un’altra, che un top manager guadagni cifre esorbitanti, che un gruppo di dipendenti vengano licenziati, che il lavoro vada progressivamente precarizzandosi e via dicendo) ma non alle categorie di pensiero nei cui termini l’esperienza dovrebbe essere valutata. Essenzialmente per una ragione di fondo: perché non c’è più un pensiero economico degno di definirsi tale che possa aiutare a comprendere le dinamiche economiche e, se necessario, a indicare possibili correttivi per modificarle, armonizzarle, indirizzarle verso percorsi umanamente più virtuosi.

È stato giustamente osservato da Marco Ruffolo, giornalista economico, allievo peraltro dell’indimenticato Federico Caffè, che «quando le idee economiche diventano autoreferenziali, quando ogni fenomeno difficilmente spiegabile viene ingabbiato a forza nei paradigmi di quelle idee o peggio occultato se rischia di metterle in dubbio…ecco che l’economia si trasforma in una scienza non solo triste ma inutile, perché incapace di capire la realtà che cambia continuamente sotto i nostri occhi».

Oggi siamo messi proprio così. Stiamo vivendo la notte più buia del pensiero economico. La grande crisi finanziaria esplosa nel 2008 ha reso evidente a tutti che non ci sono più ripari dietro cui rifugiarsi, che sono saltate tutte le impalcature concettuali, che le scuole neoclassica e keynesiana che avevano nel Novecento assunto alternativamente lo status di paradigmi economici dominanti non sono più in grado di offrire una lettura convincente della complessità dei fenomeni socioeconomici contemporanei. Insomma, senza girarci troppo attorno, nessuno ci capisce più niente.

Per dirla con una famosa frase di Kierkegaard «la nave è ormai in mano al cuoco di bordo e ciò che trasmette il megafono del comandante non è più la rotta, ma ciò che mangeremo domani». E va da sé che, fuor di metafora, i cuochi sono innanzitutto gli economisti (ma non solo), con l’aggravante che spesso non sanno nemmeno indicare cosa mangeremo (o da chi saremo mangiati) domani.

Sulle cause dei loro ripetuti fallimenti culturali mi soffermo ampiamente nel libro e quindi soprassiedo dal farlo già qui. Una cosa però vorrei che fosse chiara a tutti sin d’ora: per cambiare l’economia e rimettervi al centro l’uomo (è questa, in sostanza, la mia idea di post economia che fa da filo rosso a tutto il libro) è necessario che a darsi una mossa, a mettersi in gioco e rimboccarsi le maniche non siano solo gli economisti ma tutti, addetti ai lavori e non di questioni economiche. E che le idee circolino liberamente senza steccati, gerarchie, supponenze.

In tal senso c’è un episodio molto significativo che il compianto Tommaso Padoa Schioppa raccontò nel 1999 in occasione del ventennale della scomparsa dell’ex governatore della Banca d’Italia Paolo Baffi:

«La svolta nei miei rapporti con Baffi avvenne in un modo curioso e rivelatore. Mi trovai – credo per uno sbaglio delle convocazioni – a partecipare ad una riunione del Direttorio della Banca d’Italia quando non avevo affatto il rango per potervi entrare. Non seppi fare di meglio che ingaggiare un serrato contraddittorio con Paolo Baffi, il Direttore Generale, sostenendo una tesi del tutto opposta alla sua. Si trattava di trovare il modo per collocare i Buoni ordinari del Tesoro che l’inflazione aveva reso inappetibili al mercato.

Tornato a casa quella sera dissi in famiglia che probabilmente ogni mia speranza di una qualche carriera era stroncata per sempre. Infatti, l’indomani mattina, appena giunto in ufficio, alle otto e mezzo, mi telefonò la signora Berni per convocarmi dal Governatore Carli, di cui era la segretaria. Scesi le scale preparato al peggio. Senza dire una parola, Carli percorse tutto il corridoio e mi portò nella stanza del Direttore generale, dove erano già presenti Baffi, Occhiuto e Ossola: evidentemente bisognava fare una esecuzione in grande stile.

Invece Baffi disse che aveva riflettuto, la notte, sulla discussione del giorno prima e che era rimasto convinto dall’argomentazione contraria alla sua…Così iniziò un periodo in cui il mio rapporto di lavoro con Paolo Baffi fu strettissimo, direi quotidiano. Per quattro anni fui totalmente assorbito e nutrito da questo rapporto, nel quale crebbi e mi formai…e capii che (il corsivo è mio, nda) nell’analisi, nella discussione, non esistono gradi, esiste solo la qualità degli argomenti.

Nella stanza in cui si trattava una complessa questione monetaria avrebbe potuto trovarsi di passaggio una persona priva di laurea, un operaio delle officine carte e valori o un addetto alla pulizia, ma se quella persona avesse detto in quel momento una cosa più sensata di quelle pronunciate da funzionari più titolati, Paolo Baffi l’avrebbe ascoltata per quello che era, del tutto indifferente al grado, al rango, all’età della persona.

La sua maniera tagliente, quasi brutale, e per molti così intimidente, di esprimersi nelle discussioni, di criticare osservazioni fatte da altri, non veniva da una presunzione di superiorità; veniva, al contrario, dall’assenza di qualunque presunzione di aver ragione e quindi dal bisogno di difendere le proprie ragioni e di stimolare il suo interlocutore a fare lo stesso».

Purtroppo personalità del calibro di Paolo Baffi oggi non se ne vedono molte in giro. Ma il suo metodo di confronto rimane a mio avviso l’unico davvero fertile che ha senso seguire. La post economia infatti non può che essere un cantiere di riflessione aperto. E i lavori, visto il tanto che c’è da fare, prima iniziano e meglio è. A cominciare dalle pagine seguenti.

Francesco Maggio

Economista e giornalista, già ricercatore a Nomisma e a lungo collaboratore de Il Sole24Ore, da molti anni si occupa dei rapporti tra etica, economia e società civile. Tra i suoi libri: I soldi buoni, Nonprofit (con G.P. Barbetta), Economia inceppata, La bella economia, Bluff economy. Email: f.maggio.fm@gmail.com