Comunicare (male) il bene
Una nuova iniziativa editoriale è sempre una buona notizia. Ancor di più se si propone di approfondire un fenomeno articolato e complesso come il settore nonprofit. Ma la buona notizia finisce qui. Perché, già a partire dal nome “Buone notizie” (con sottotitolo: “L’impresa del bene”) che il Corriere della sera ha voluto dare al suo nuovo inserto, allegato gratis al quotidiano ogni martedì, ci sono molte cose che non convincono. Se si parte con l’idea, del tutto errata, che il Terzo settore sia popolato solo da “santi”, che i milioni di volontari che prestano la loro opera gratuitamente siano la parte migliore della società contrapposta, evidentemente, a un’altra molto meno “nobile”, non ci siamo affatto. E’ infatti questo l’errore sistematico in cui cadono i giornali quando affrontano il tema della solidarietà. Lo polarizzano, dividono grossolanamente subito il mondo in buoni e cattivi e poi fanno un raccontino dei primi al profumo di lavanda.
Lo ha fatto per esempio Repubblica in agosto, quando nel difendere “senza se e senza ma” le ragioni delle organizzazioni non governative (ong) che operano al largo della Libia ha realizzato un’inchiesta (in realtà un mero approfondimento delle attività di alcune ong) intitolata, manco a dirlo “L’esercito del bene”. Poiché molte delle polemiche sulle ong delle settimane scorse nascevano anche dalla decisione di Medici senza frontiere di non voler firmare il codice di condotta messo a punto dal ministro dell’Interno Minniti sarebbe stato senz’altro più efficace che una simile inchiesta includesse almeno qualche voce dissonante dall’interno. Mi viene in mente un’affermazione non trascurabile come quella di qualche anno fa dello stesso fondatore di Medici senza frontiere Jean Christophe Rufin (riportata proprio sulle pagine milanesi di Repubblica, il 3 marzo 2013, pag. 15): «Non mi piace la deriva delle onlus. Sono diventate peggio delle istituzioni che contestavamo, vanno in missione nei posti dove gli danno i soldi, a prescindere se serva o meno».
Oppure che prevedesse una sorta di controcanto da affidare a qualcuno che ha analizzato da vicino il dietro le quinte dell’”esercito del bene”. Penso a Valentina Furlanetto, che con il suo libro “L’industria della carità” ha dimostrato bravura e coraggio. Invece no. Solo un racconto “a favore” delle cose che le ong fanno (che sono tante, meritorie, preziose e insostituibili, diciamolo subito a scanso di equivoci). Che rischia però di renderlo parziale, incompleto. E, in ultima istanza, non interessante.
Il Terzo settore infatti è un mondo pieno di contraddizioni. Di più, sono proprio le sue contraddizioni a renderlo vivo e attrattivo. Come ho già scritto, dentro c’è un po’ di tutto: fighetti che si atteggiano a cooperanti e cooperanti veri colmi di motivazioni, operatori del settore con animo francescano e operatori con sandali francescani e appetiti da pescecani, cooperatori sociali innovatori e trafficoni impenitenti stile “mafia capitale”, fondazioni serie ed efficienti e fondazioni usate come centri di potere, dirigenti al servizio del bene comune e dirigenti al servizio della propria carriera. E via elencando. Ne vogliamo almeno qualche volta parlare oppure preferiamo far finta che vada sempre tutto bene? Cosa dovrebbe fare un giornale che con un inserto apposito decidesse di approfondire i temi della solidarietà se non questo? Far emergere le contraddizioni, separare il grano dal loglio e mettere il lettore in condizione di farsi un’idea personale e libera di cosa comprende un’espressione, così suggestiva ma anche con il peccato originale della “residualità”, come quella di terzo settore. La vera buona notizia sarebbe che finalmente si guardasse a questo mondo senza pregiudizi (positivi prima ancora che negativi) e si mettesse in condizione chi volesse saperne di più di fare altrettanto.
Questo inserto del Corriere della sera nasce, al contrario, già vecchio e appesantito (con un comitato scientifico di ben 17 elementi, alcuni dei quali fatico a immaginarmi perché siano lì). Già nel primo numero di martedì 19 settembre sono apparse cose già dette e ridette da tempo e altrove. Per esempio: l’intervista all’ex Miss Italia che fa volontariato ad Haiti, le fondazioni bancarie che stanziano fondi per combattere la povertà dei bambini (con immancabile virgolettato del ventennale presidente dell’Acri e della Fondazione Cariplo, Giuseppe Guzzetti), l’importanza della responsabilità sociale d’impresa (mi meraviglio non si siano giocati subito anche la carta di un articolo sulla nazionale cantanti o sul boom dei fondi etici – quando ci sono di mezzo i fondi etici è sempre boom, sebbene questo decollo vertiginoso non ci sia mai stato in Italia).
E poi se proprio si vuol partire con simili servizi che almeno li si affianchi anche con altri un po’ più “irriverenti” del tipo: testimonial famosi e organizzazioni nonprofit, il binomio a chi “conviene”? Ci sono artisti che a mio avviso non spostano un euro di donazione ma ne traggono comunque vantaggi perlomeno reputazionali, mentre ce ne sono altri che davvero risultano efficacissimi nel motivare a donare; oppure, a fronte dei 120 milioni di euro stanziati dalle fondazioni bancarie per la povertà infantile perché ne sono stati impiegati praticamente il quadruplo per il fondo Atlante che avrebbe dovuto salvare le banche Popolare di Vicenza e Veneto banca prima che queste finissero poi tra le braccia di Intesa-San Paolo? Che nesso c’è? E ancora, non è che tutto questo parlare di responsabilità sociale d’impresa spesso non sia altro che marketing o poco più invece che autentica cultura d’impresa?
Insomma, ci vorrebbe un po’ di sana provocazione giornalistica e culturale. Altrimenti l’inserto del Corriere finirà presto per diventare un contenitore, per dirla parafrasando il titolo del libro di un autore da queste parti piuttosto familiare, di buone notizie che non lo erano.