Economia decente
Esce in questi giorni il mio nuovo libro intitolato Economia decente (Edizioni Gruppo Abele). Ecco in anteprima alcuni stralci dell’introduzione.
È sempre la solita solfa. Purtroppo. I ricchi diventano sempre più ricchi, i poveri sempre più poveri e chi sta in mezzo di solito va presto a fare compagnia ai secondi.
Anche stavolta non c’è stato scampo. Anche l’ultima infinita crisi economica scoppiata nel 2007 negli Stati Uniti e poi propagatasi nel mondo intero non ha fatto altro che confermare la vecchia, spietata regola secondo la quale quando le cose vanno male quelli che già arrancano cascano in peggio, chi sta in bilico spesso li segue mentre chi se la passa bene finisce poi per stare ancora meglio. Molto, ma molto meglio.
I dati abbondano in proposito. A cominciare dalle consuete classifiche dei “Paperoni” planetari di Forbes o Bloomberg che vedono al top multimiliardari con ricchezze personali pari al Prodotto interno lordo di interi Paesi. O, all’opposto, le rilevazioni sulla disoccupazione, vero termometro dello stato di diffuso malessere, che celano storie di vita e a volte, ahimè, anche di tragici fine vita.
Le prime sono note, le conosciamo più o meno tutti, con al top i famosi Bill Gates, Carlos Slim, Arancio Ortega, Warren Buffet, Ingvar Kamprad, i cui patrimoni, è stato calcolato, valgono rispettivamente quanto il Pil di Stati come Azerbaigian, Ecuador, Costarica, Uzbekistan, Libano. Per non dire poi, sempre avendo a riferimento come termine di paragone l’unità di misura del Pil, di come i super ricchi del Pianeta sottraggano al fisco, depositandoli nei paradisi off-shore, una gigantesca montagna di soldi, dell’ordine di 21mila miliardi di dollari, l’equivalente nel 2012 del Pil di Stati Uniti e Giappone messi insieme.
Quanto al nostro Paese è sufficiente sottolineare che il patrimonio delle 10 famiglie più ricche è uguale al patrimonio dei 20 milioni di italiani più poveri, che nelle disponibilità del 10% degli italiani si concentra quasi il 50% della ricchezza nazionale, in quelle dell’1% il 23,4% e che l’evasione fiscale è così diffusa che meno del 2% degli italiani dichiara più di 100mila euro all’anno e solo lo 0,1% più di 300mila euro.
Pure di chi sta peggio, i più, si sa molto. Soprattutto in anni recenti perché finalmente le notizie girano più liberamente, i canali di informazione (e controinformazione) sono molteplici, quello che accade in qualsiasi parte del mondo è a portata di mouse e l’effetto domino di grandi manifestazioni di denuncia delle disuguaglianze riesce talvolta a rivelarsi inarrestabile, convincente, illuminante.
Basti pensare al movimento, di breve durata ma di vasto impatto culturale Occupy Wall Street, nato nell’estate del 2011 a New York su impulso di Kalle Lasn, fondatore della rivista anti-consumista Adbusters, per denunciare le derive banditesche della finanza speculativa all’insegna dello slogan, pur “grossolano” ma sicuramente efficace «Noi siamo il 99 per cento». Una protesta contro quell’1 per cento, appunto, che detiene il grosso della ricchezza mondiale e decide le sorti del restante 99 per cento della popolazione mondiale. Spiegherà Lasn: «Questo movimento è essenzialmente un’idea che ha radicato milioni di giovani nel mondo attorno a una presa di coscienza: che i conti del futuro non tornano, non quadrano né dal punto di vista socio-economico, né dal punto di vista ambientale». E gli farà eco il Nobel per l’economia Joseph Stiglitz:
«Il sistema economico è non solo inefficiente e instabile ma anche profondamente iniquo. La grande recessione non ha creato la disuguaglianza, ma di certo l’ha aggravata. Con le opportune politiche possiamo migliorare la situazione. La domanda è: possiamo farlo? Si, a patto che il 99 per cento della popolazione si accorga di essere stato ingannato dall’1 per cento: che ciò che è nell’interesse dell’1 per cento non è nel loro interesse. L’1 per cento ha lavorato sodo per convincere il resto della società che un mondo alternativo non è possibile».
Ha pienamente ragione Stiglitz, quell’1 per cento, che naturalmente è una percentuale simbolo più che una stima inappuntabile, ha lavorato sodo e incessantemente per far passare l’idea che le disuguaglianze non devono essere demonizzate. Anzi, che sono fisiologiche alla crescita economica, perché solo così può realizzarsi quella che certa teoria economica, tanto screditata quanto amata dalle elite, chiama “economia dell’effetto a cascata” (trickle-down economics). Un tipo di economia cioè che, per dirla in estrema sintesi, sostiene che è necessario che i ricchi si mangino il grosso della torta affinché poi si possa liberare qualche briciola anche per i poveri. Tanto vale quindi, è la conclusione che traggono, non andare troppo per il sottile. Per esempio: vengono elargiti immeritatamente super bonus a banchieri e top manager? Imprenditori senza scrupoli licenziano da notte a mattino i propri dipendenti e trasferiscono nel contempo i macchinari produttivi all’estero? Le banche chiudono indiscriminatamente i rubinetti del credito lasciandoli però sempre aperti per personaggi già abbondantemente indebitati ma evidentemente “intoccabili”? E allora? Che problema c’è? Tutto fa parte del grande gioco dell’economia, rispondono. Un meccanismo codificato in concetti che acquisiscono la valenza di assiomi mentre sono in realtà solo specchietti per le allodole che un economista di grande spessore come Guido Rey sosteneva servissero solo a celare l’ignoranza e l’assenza di strumenti analitici: mano invisibile («un trucco da prestigiatore» la stigmatizzava Rey), tasso naturale di disoccupazione, povertà strutturale, tasso naturale di interesse, tasso naturale di sviluppo, banche troppo grandi per fallire, eccetera, eccetera. Concetti veicolati e ribaditi a martello da una pletora di economisti, categoria la cui credibilità accademica, come vedremo ampiamente nel primo capitolo, mai come oggi risulta così profondamente compromessa.
Per non parlare poi del refrain intonato a bacchetta dai tanti giornalisti cari all’establishment che, a corto di opinioni serie (e vorrei ben vedere) per esaltare le indifendibili “virtù” taumaturgiche della disuguaglianza, snocciolano dati provenienti da discutibili statistiche, prima di insinuare il dubbio fatale: siamo sicuri che si stava meglio quando si stava peggio? Oppure, con consumata abilità, messi alle strette per evidenti limiti argomentativi buttano la palla in tribuna spostando il dibattito sul terreno dell’invidia sociale. Come a dire che se critichi le disuguaglianze è perché in fondo sei invidioso degli agi dei ricchi. Quindi con il ditino alzato e il sorrisetto beffardo tipici dei saccenti che traspaiono da ogni loro riga scritta o parola pronunciata non mancano di rimarcare che la questione è un’altra (la questione per loro è sempre un’altra) ben riassunta nella tanto citata quanto usurata frase di Olof Palme, uno dei leader storici della socialdemocrazia europea: «Non dobbiamo combattere la ricchezza, dobbiamo combattere la povertà». Come se ricchezza e povertà fossero due mondi distinti che viaggiano in parallelo.
Qualche volta, per fortuna, arriva a levarsi una voce talmente forte e autorevole che nessuno può più far finta di niente o minimizzare. Come è accaduto con la “luminosa” esortazione apostolica Evangelii Gaudium di Papa Francesco che, all’iniquità e all’idolatria del denaro, riserva parole inequivocabili:
«Mentre i guadagni di pochi crescono esponenzialmente, quelli della maggioranza si collocano sempre più distanti dal benessere di questa minoranza felice. Tale squilibrio procede da ideologie che difendono l’autonomia assoluta dei mercati e la speculazione finanziaria». Arrivando il Santo Padre ad affermare senza mezzi termini: «Così come il comandamento “non uccidere” pone un limite chiaro per assicurare il valore della vita umana, oggi dobbiamo dire “no” a un’economia dell’esclusione e dell’iniquità. Questa economia uccide».
Purtroppo gli episodi in tal senso non mancano, dagli avvelenamenti industriali per emissioni inquinanti allo sfruttamento fino alla morte degli operai nelle fabbriche lager, dagli incidenti mortali sul lavoro per scarsa manutenzione e prevenzione al neoschiavismo nel lavoro dei campi e nella raccolta di prodotti agricoli con conseguenze spesso fatali.
Sono numerosissimi, troppi, insopportabilmente troppi poi i casi di disperazione sfociati in terribili gesti definitivi.
Le cronache di questi anni sono piene di drammi che hanno riguardato persone di tutte le età e di tutti i ranghi sociali e professionali. E solo chi mette la testa sotto la sabbia per non vedere e ascoltare, seduto magari su una comoda poltrona nei giardini di un grande albergo con vista lago e con un bicchiere di whisky in mano a discettare di massimi sistemi, può far finta di niente e sostenere che tutto vada comunque bene, che si tratti della dura ma inevitabile legge del mercato. Rimanendo insensibile a questo vero e proprio «scandalo della disuguaglianza», per dirla un’espressione coniata a suo tempo da Norberto Bobbio quando scoprì da bambino la miseria dei contadini che morivano di fame. Uno scandalo causato in primis dalla disoccupazione che, per rimanere in casa nostra, in alcune aree del Mezzogiorno arriva a toccare persino il 50 per cento.
Come se ne esce? Come porre riparo a tale perdurante scandalo? In sintesi, come rendere l’economia finalmente decente?
Decente, letteralmente, vuol dire «che è conforme alla dignità, al pudore, al decoro». Ebbene, è proprio di un’economia decente che c’è bisogno, un’economia che sia rispettosa della dignità umana (contrastando la disoccupazione e il precariato), conforme al pudore (si pensi, al contrario, alle retribuzioni “spudorate” di certi top manager o alle volgari manifestazioni di opulenza e sfarzo di tanti ricchi), decorosa nel suo funzionamento (per esempio, più ancorata alla produzione industriale e meno alla finanza speculativa).
Con la sua straordinaria capacità di andare sempre al cuore delle questioni anche con poche parole il 24 giugno del 2014 Papa Francesco scrisse questo tweet: «Quanto vorrei vedere tutti con un lavoro decente! E’ una cosa essenziale per la dignità umana». E’ così. Proprio così. Un’economia decente, un lavoro decente devono essere l’obiettivo. Perché la decenza mette al bando i massimalismi, le ideologie e, quindi, gli alibi di chi, nascondendosi dietro il “benaltrismo” («il vero problema è un altro», quante volte lo sentiamo dire) non si assume mai la propria piccola o grande parte di responsabilità, non fa mai il proprio piccolo o grande dovere.
Alcuni anni fa uscì un libro del sociologo israeliano Avishay Margalit intitolato La società decente. Qui Margalit sosteneva che «una società decente è una società le cui istituzioni non umiliano le persone. Umiliazione è ogni comportamento o condizione che costituisce una valida ragione perché una persona consideri offeso il proprio rispetto di sé». E aggiungeva che «una società decente è quella che lotta contro condizioni che costituiscono una giustificazione perché i suoi membri si considerino umiliati».
Già, ma come si fa a condurre questa lotta? Perché infatti possa esservi una società decente è indispensabile che vi sia un’economia decente. Un’economia cioè che (ri)metta al centro delle sue dinamiche di funzionamento l’uomo, la persona, la dignità umana.
È possibile? Certo che è possibile. A patto che, avrebbe risposto in proposito già diversi decenni fa un economista di vaglia purtroppo prematuramente scomparso come Fausto Vicarelli, al rigore scientifico si accompagni sempre una costante, lungimirante e profonda tensione morale.
Il Nobel per l’economia Paul Krugman sostiene che «gli unici veri ostacoli strutturali al benessere del mondo sono le dottrine obsolete che annebbiano la mente degli uomini».
Sono esattamente del medesimo avviso. Quel che segue, quindi, è una sorta di tentativo per provare a diradare almeno un po’ queste nebbie.