Com’è la riforma delle banche di credito cooperativo
Finalmente, dopo qualche falsa partenza, la riforma delle banche di credito cooperativo (BCC) è approdata al Consiglio dei ministri. Mercoledì scorso infatti, dopo che già da fine dicembre lo si dava per imminente, il governo ha varato un decreto legge che ridisegna il credito cooperativo italiano mantenendone nel contempo integra l’identità: strutture a mutualità prevalente, voto capitario, banche di comunità con licenzia bancaria individuale, consigli di amministrazione eletti dai soci.
Tuttavia, pur legiferando in modo sostanzialmente in linea con quanto previsto dal progetto di autoriforma approntato dallo stesso sistema delle oltre 350 banche facenti capo a Federcasse, l’esecutivo non ha rinunciato a introdurre un forte elemento di innovazione che ha il grande merito di andare a “scoprire le carte”. Viene in mente una famosa battuta di Warren Buffet: «Solo quando la marea si abbassa scopri quelli che stavano nuotando senza costume». Ebbene, detta in estrema sintesi, il vero pregio di questo decreto legge è quello di abbassare la marea. Cerchiamo di capirne il perché.
Il provvedimento del governo, peraltro ancora da ultimare in alcune parti, contiene essenzialmente due previsioni.
1) L’obbligo per le bcc di aderire a un gruppo bancario cooperativo che abbia come capogruppo una società per azioni con un capitale non inferiore a un miliardo di euro, la cui maggioranza dovrà essere detenuta dalle stesse bcc del gruppo. L’adesione a un gruppo bancario sarà condizione indispensabile per il rilascio alle singole bcc, da parte della Banca d’Italia, dell’autorizzazione all’esercizio dell’attività bancaria in forma cooperativa. La capogruppo dovrà svolgere attività di direzione e di coordinamento delle bcc in base ad accordi contrattuali, chiamati “contratti di coesione”, che stabiliranno i poteri della capogruppo sulle singole banche, poteri stringenti in modo inversamente proporzionale alla “virtuosità” delle stesse: quanto più una banca si dimostrerà solida, efficiente e trasparente tanto più saranno ampi i suoi margini di autonomia;
2) Le bcc che non volessero aderire a un gruppo bancario così come appena delineato potranno farlo a patto che abbiano riserve di almeno 200 milioni di euro e versino all’erario un’imposta straordinaria del 20 per cento sulle riserve stesse. Inoltre, non potranno continuare a operare come banca di credito cooperativo bensì dovranno trasformarsi in società per azioni.
Sul primo punto nessun problema. Il decreto legge ricalca fedelmente quanto previsto dal già citato progetto di autoriforma messo a punto da Federcasse su impulso del governo. Nessuno, quindi, si è lamentato di nulla.
Il secondo punto, la cosiddetta “way out”, ha invece scatenato molte polemiche diventando subito un vero e proprio pomo della discordia.
Mentre infatti, allo stato attuale, se una bcc volesse trasformarsi in società per azioni dovrebbe devolvere l’intero patrimonio accumulato (anche in esenzione d’imposta grazie al regime fiscale di vantaggio di cui godono le bcc) ai fondi della cooperazione (e va da sé che si tratta di un deterrente fortissimo a migrare verso altri lidi societari), secondo quanto previsto dal governo alle bcc con riserve di almeno 200 milioni basterebbe pagare un’imposta, certamente onerosa ma non poi così proibitiva.
Si capisce bene che una simile, molto più concreta, eventualità per alcune banche di affrancarsi dal mondo cooperativo (una quindicina in tutto quelle che hanno oggi i requisiti patrimoniali per farlo) possa aprire una breccia non irrilevante in un sistema che non difetta in autocelebrazione della sua compattezza (si veda, per citarne la più recente, la campagna pubblicitaria apparsa su Repubblica del 23 dicembre, con il seguente slogan “Le bcc sono preziose e la loro rete le unisce e le protegge: ecco perché io sto con le bcc”).
Qualcuno ha scritto in proposito di «vulnus che rischia di essere controproducente non solo per il settore del credito cooperativo ma anche per l’obiettivo che lo stesso Governo si è dato nell’interesse del Paese: rinforzare il nostro sistema bancario in un momento di forti turbolenze» (Leonardo Becchetti su Avvenire del 12 febbraio). Qualcun altro ha addirittura parlato di «violenza istituzionale che ci riporta indietro di decenni, ai giorni del fascismo che sciolse le associazioni cooperative», di «attacco al cuore delle bcc e della cooperazione in generale» e di «misure che tradiscono le intese, stravolgono e pervertono la soluzione concordata e aprono una falla disastrosa nella tenuta del sistema» (Maurizio Ottolini, vicepresidente vicario di Confcooperative, in un comunicato stampa diffuso la mattina dell’11 febbraio, poche ore dopo il consiglio dei ministri,).
Ora a parte questa singolare concezione di “soluzione concordata” quasi che il governo dovesse svolgere una mera funzione notarile che certificasse quanto Federcasse aveva autonomamente stabilito per il destino delle sue banche, credo che il resto della dichiarazione di Ottolini non meriti altri commenti se non totale riprovazione per quell’infelice riferimento al fascismo. E dispiace che la dirigenza di Federcasse non abbia stigmatizzato tali toni avendone lei, al contrario, usati di ben più pacati e garbati per esprimere comunque la sua «forte preoccupazione per alcuni aspetti del decreto» (cioè per la way out).
Sull’idea di vulnus, invece, è utile tornarci su. Partendo proprio da un’altra affermazione che fa Becchetti nel suo editoriale quando ammette che «La storia è nota. Mentre le banche di credito cooperativo di altri Paesi (Olanda, Francia, Finlandia, Canada) hanno via via proceduto spontaneamente a un’integrazione che mantenendo maggiori o minori gradi di autonomia, ha consentito loro di far fronte comune alle nuove sfide del mercato globale le bcc italiane sino a oggi non erano riuscite a procedere autonomamente in questa direzione».
Prendiamo subito atto, quindi, che anche chi parla di vulnus non può fare a meno di riconoscere che il processo di integrazione delle Bcc sia stato un mezzo fallimento. Ma Becchetti non fa purtroppo il necessario passo successivo spingendosi a spiegarne il perché. Che invece è molto semplice: perché Federcasse è voluta andare in un’altra direzione. E oggi (anzi già da un po’) si è scoperto che quella direzione era sbagliata.
Ecco cosa affermava l’allora (e anche attuale) presidente di Federcasse Alessandro Azzi nove anni fa (Sole 24 Ore del 2 ottobre 2007): «Negli ultimi 12 anni sono state costituite 100 nuove banche locali, vi leggo una voglia di partecipazione civica, di protagonismo imprenditoriale e di una vitalità dei valori. La voglia di nuove banche non può essere di per sé sospetta, comunque negativa, soprattutto in certe aree».
Il discorso apparentemente non fa una piega, il pensiero è cristallino. Tranne che poi, alla prova dei fatti, si rivelerà sbagliato. Né può valere da attenuante la circostanza che allora erano altri tempi, che il mondo andava da un’altra parte, che la “grande crisi” doveva ancora manifestarsi. Già, perché nelle stesse settimane c’era chi sosteneva, da un pulpito non propriamente trascurabile dalle rassegne stampa che arrivano sulle scrivanie dei dirigenti come il Corriere della sera, esattamente una tesi contraria a quella di Azzi. Ricordava infatti il 4 novembre 2007 Massimo Mucchetti (oggi senatore PD, di certo non “renziano”) in un editoriale significativamente intitolato “Le banche cooperative: una grande potenza che non riesce a esprimersi”, ciò che era accaduto in Francia con il Crédit Agricole (non a caso evocato a più riprese da Renzi quale modello cui avrebbe voluto le Bcc oggi si conformassero ma che ad Azzi non piace affatto): «Nel 1988 lo Stato regala il 90% del Crédit Agricole alle Casse regionali e il 10% a dipendenti e pensionati trasformando così questo soggetto pubblico in una società di capitali controllata, attraverso la holding Rue La Boétie, dalle Casse regionali oggi ridotte a 39 dopo una serie di fusioni». E aggiungeva: «Ebbene, se avessero imitato le consorelle d’Oltralpe, magari facendo leva sulla società per azioni comune, Iccrea Holding, le Bcc avrebbero potuto giocare un ruolo di primo piano nelle concentrazioni bancarie italiane».
Insomma, già in tempi lontani, c’era chi proponeva un percorso di integrazione spinto. Azzi e le Bcc sono volute andare (legittimamente, ben s’intende) in altra direzione ed oggi sono i fatti a indicare chi aveva ragione. E quando sono cominciati a diventare più pressanti gli inviti a cambiare passo (per esempio il 21 giugno 2013, proprio a un convegno di Federcasse, da parte di Fabio Panetta, vicedirettore di Banca d’Italia: «Le bcc si trovano ora a un passaggio difficile, devono agire in modo incisivo sui costi, lungo le linee seguite da altre banche e rivedere in profondità l’assetto organizzativo») la reazione dei vertici di Federcasse non è stata, mettiamola così, immediata. Ancora il 2 febbraio 2014 Azzi sosteneva (su Repubblica) che «piccolo e coop, purché in rete, è ancora bello». E dieci mesi più tardi il direttore generale di Federcasse Sergio Gatti affermava, a proposito della “moral suasion” a cambiare proveniente da Banca d’Italia e dalla Banca centrale europea: «Vorremmo evitare di cambiarlo (il modello organizzativo delle bcc, ndr) anche se un’evoluzione ci sarà. Sia per quanto riguarda le strutture interne, sia con processi di aggregazione, ma lo vogliamo fare con scelte autonome e non sulla base di regole scritte da altri» (Corriere Economia del 15 dicembre 2014).
Di fronte a questo ripetuto tentennare, con un sistema bancario nel suo complesso bisognoso di profonde ristrutturazioni, il Governo cosa avrebbe dovuto fare? Rimanere a guardare nella speranza che le tipologie di banche più restie al cambiamento come le popolari e le bcc prima o poi si dessero una mossa? Evidentemente no. Da qui nasce la decisione nel gennaio del 2015 di mettere mano alla riforma delle popolari e di stralciare dal provvedimento le bcc concedendo loro un’ennesima opportunità di provare a scriversi da sole il proprio destino, «un’occasione che non va sprecata ma neanche annacquata» ammoniva il Sole 24 Ore il primo marzo 2015 in un editoriale non firmato.
Se non si ricorda, seppur molto velocemente, come si arriva alla riforma delle bcc appena varata dal governo,
allora si rischia di creare solo confusione. E non si ha il coraggio di riconoscere che la “way out” offre perlomeno un duplice vantaggio: introduce un po’ di salutare concorrenza in un sistema che ne ha sempre avuto paura (altro che quanto scrive Becchetti: «Con le novità annunciate sull’opt out si aggrava il rischio di selezione avversa e si tentano gli istituti migliori o che divengono più “appetibili” a uscire dal sistema cooperativo»); si ha modo di verificare, sul campo, chi per libera scelta davvero ci tiene a rimanere a far parte del mondo del credito cooperativo e chi, invece, «stava nuotando senza costume». In tal senso è apprezzabile quanto dichiarato proprio dallo stesso Azzi, ieri sul Sole 24 Ore: «C’è da concentrare gli sforzi per creare un gruppo così attrattivo che tutti riterranno opportuno rimanerci, non perché costretti ma per il fatto che sarà il modo migliore per continuare a fare banca mutualistica».
Adesso però passiamo ai fatti che le polemiche inutili hanno stufato.