L’economia che assomiglia alla cucina molecolare
Sembra che il grande chef catalano Ferran Adrià, per anni considerato il più bravo di tutti, abbia fatto una parziale “marcia indietro” circa il suo cavallo di battaglia, la cosiddetta cucina molecolare, quella che, riprendo testualmente da Wikipedia, prevede la «manipolazione degli alimenti dal punto di vista chimico e fisico». «Cucina molecolare? Molto meglio una carbonara» titolava domenica scorsa Corriere.it una lunga intervista (di Andrea Nicastro) al pluristellato re dei fornelli (e degli sferificatori). L’intervista naturalmente diceva molto altro, tra distinzioni e puntualizzazioni interessanti. Però il titolo lasciava intendere come ormai una stagione, seppur gloriosa, stesse avviando a chiudersi, così come più di un anno fa era stato chiuso per sempre a Roses il suo famoso ristorante El Bulli.
E adesso i suoi estimatori, difensori, emuli come la prenderanno? C’è stato un periodo infatti, nel recente passato, in cui sembrava che per l’alta cucina ci fosse sempre meno posto per cuochi e sempre di più per “scienziati”. Che fare dunque adesso che anche Adrià consiglia, almeno a chi vuol mangiare in un ristorante italiano, di cercare «una buona pizza, un’ottima pasta»?
Confesso che mi ha fatto sorridere non poco tale correzione di rotta perché per un momento mi è venuto spontaneo associarla alla scena finale di un vecchio film di Sergio Citti dei primi anni Ottanta, intitolato Il minestrone (tanto per rimanere in ambito culinario). Qui un giovanissimo Roberto Benigni si rivolge a una specie di guru interpretato da Giorgio Gaber che lo ha condotto, insieme a una moltitudine di persone, in cima a una montagna: «Ma dove ci hai portato?» chiede a quel punto Benigni. E Gaber, con una risata beffarda, risponde: «Che c…o ne so».
Mi viene molto meno da ridere invece se penso che simili dinamiche da sempre caratterizzano diffusamente il discorso economico. Sistematicamente, a un certo momento, salta fuori una parola d’ordine, un algoritmo, un mainstream e subito pletore di economisti, operatori, banchieri, governanti fanno a gara per implementarli. Salvo poi scoprire che erano lacunosi se non del tutto sbagliati e che hanno prodotto conseguenze dannose, non di rado perniciose.
Penso per esempio ai modelli matematici che hanno fatto esplodere la finanza dei derivati. In particolare alla cosiddetta “funzione di copula gaussiana” del matematico cinese David X. Li. Una formula che, come ricordava qualche tempo fa Riccardo Staglianò in un bel colloquio per il Venerdì con Emanuel Derman, soprannominato l’Einstein di Wall Street, prometteva di esprimere in un numeretto unico le probabilità che due (o 10, 100, 1000) soggetti potessero fare default rispetto al debito contratto. «Una formula elegante» scriveva Staglianò, «semplice da applicare e perciò amata dalle agenzie di rating che dovevano valutare la rischiosità di panieri di mutui eterogenei. E tuttavia drammaticamente sbagliata, perché pretendeva di tenere insieme situazioni irriducibili». Oppure penso agli errori grossolani che hanno commesso alcuni economisti come Carmen Reinhart e Kenneth Rogoff (compromettendo forse per sempre la propria reputazione accademica) mettendo a punto la ricetta dell’austerity quale unica, imprescindibile pietanza per la crescita salvo poi realizzare che alcuni ingredienti essenziali erano risultati sbagliati o, peggio, erano stati omessi.
Ma c’è una cosa che forse più di altre accomuna spesso l’economia alla cucina molecolare: renderla una sorta di esperienza emozionale. Afferma Adrià nell’intervista di cui sopra: «Il principale obiettivo (della cucina molecolare, nda, che il grande chef preferisce chiamare tecno-emozionale) è creare concetti ed emozionare chi assapora».
Beh, talvolta gli economisti sortiscono esattamente il medesimo risultato. Tre giorni fa, il pur di solito ineccepibile nelle sue analisi Tito Boeri, ha scritto su Repubblica un lungo articolo in cui sostiene che «il taglio alle pensioni d’oro degli italiani introdotto nel maxiemendamento alla legge di stabilità è di una rozzezza inaudita». E giù con una serie di argomentazioni che molto affrontano tranne un aspetto a mio avviso essenziale: l’alto valore simbolico che una misura del genere rappresenta nella direzione di un maggiore equità redistributiva. Non è infatti tanto il quantum che si riesce a ricavare, bensì l’idea di voler per una volta toccare gli interessi di chi riesce sempre molto efficacemente a perorarli e tutelarli. Boeri, creando un concetto come il «taglio rozzo alle pensioni d’oro» deve aver, verosimilmente, “emozionato” l’esclusivo club dei pensionati d’oro visto che l’articolo è già ripetutamente linkato in qualche newsletter. Poi però arriva, come ieri, il dato che oltre sette milioni di pensionati provano a sfangarla con meno di mille euro al mese e ti viene da preferire, senza se e senza ma, l’economia “alla carbonara”. Un po’ pesante da digerire certo, ma almeno più “genuina” e inclusiva.