La notte di Mediobanca

Un po’ come quei nobili decaduti che hanno dissipato un patrimonio ma stentano a farsi una ragione dei fasti perduti e fanno finta di niente, così Mediobanca, a lungo regina delle banche d’affari italiane, sta progressivamente perdendo fama e ruolo nel mondo della finanza sebbene dichiarazioni “istituzionali” provino a minimizzarne l’inesorabile tendenza.

L’ultimo consiglio di amministrazione svoltosi mercoledì della scorsa settimana, ancora una volta, l’ha sancito, con un comunicato stampa piuttosto ermetico e interlocutorio: «Il Consiglio di amministrazione tenutosi in data odierna ha svolto l’autovalutazione degli organi aziendali ai sensi della Comunicazione Banca d’Italia dell’11 gennaio 2012 ed espresso soddisfazione per lo stato di avanzamento del progetto di integrazione Unipol/Fondiaria-Sai e della connessa ricapitalizzazione. In questo contesto ha altresì preso atto dell’informativa dell’Amministratore Delegato in ordine alla vicenda di cui all’inchiesta presso la Procura di Milano. Il Consiglio unanime, sulla base delle informazioni a sua disposizione, attende con piena fiducia l’esito delle indagini».

Eh già, perché al di là delle scarne parole del comunicato, l’argomento principale di cui si è discusso a lungo in Cda è stato quello che ormai in tanti hanno definito il cosiddetto “papello” finito sotto la lente della Procura di Milano, ossia la lunga lista di benefit richiesta dalla famiglia Ligresti all’amministratore delegato di Mediobanca Alberto Nagel per uscire di scena e non ostacolare la fusione della compagnia assicurativa bolognese Unipol con Fonsai, verso cui Mediobanca risulta esposta per oltre un miliardo di euro. Una lista che Nagel firma il 17 maggio scorso e che comprende, tra le altre cose: 45 milioni di euro, un ufficio, una segretaria e una cascina per Salvatore Ligresti, una sostanziosa buonuscita per la figlia Jonella, mantenimento di incarichi societari di rilievo per gli altri due figli Giulia e Paolo, vacanze gratis per tutta la famiglia in Sardegna.

(Il caso Unipol-Fonsai)

Il punto è che dell’esistenza di questa sorta di lettera di intenti Nagel non ha informato nessuno. Anzi la stessa è stata a più riprese smentita (il 24 luglio con una nota informale di Mediobanca in cui si diceva che non erano «mai stati firmati documenti» e il 27 luglio, in risposta ufficiale alla Consob, asserendo di «non aver stipulato alcun accordo con la famiglia Ligresti»). Fino a quando, attraverso un escamotage messo in atto da Jonella Ligresti, tutto è spuntato fuori. La primogenita dell’ex patron di Premafin-Fonsai, infatti, il 19 luglio si reca nello studio dell’avvocato Cristina Rossello, segretario del patto di sindacato di Mediobanca e registra di nascosto una conversazione in cui l’avvocato confermava a voce l’esistenza di questa lettera. Corre quindi in Procura a consegnare la registrazione ai Pm i quali si attivano e recuperano nella cassaforte dello studio legale della Rossello il documento con la firma di Nagel che costerà all’ad di Mediobanca, poi interrogato dagli inquirenti per quasi otto ore il primo agosto in una caserma della Guardia di Finanza di Milano, la messa sotto indagine per l’ipotesi di reato di ostacolo alle funzioni di vigilanza della Consob.

Di primo acchito si sarebbe tentati di riadattare al caso, visti i rapporti intercorsi tra Nagel e i Ligresti, il titolo di un bellissimo articolo del grande Federico Caffè, pubblicato sul Manifesto il 15 luglio 1981, dedicato agli operatori di Borsa: “Praticoni pittoreschi”. Ma poi presto l’ironia lascia spazio all’amarezza, anche per il clima da “tutti contro tutti” che sta emergendo: secondo l’agenzia Reuters che ha ricostruito parti dell’interrogatorio di Nagel del primo agosto, il manager avrebbe dichiarato che dal 2003 la gestione del rapporto di Ligresti con Mediobanca avveniva soprattutto con i soci di peso dell’istituto come Profumo, Bollorè e soprattutto Geronzi, lasciando intendere che ciò in qualche modo impediva le dovute pressioni ai Ligresti su loro operazioni perlomeno dubbie, di cui veniva a conoscenza solo a cose fatte. Immediata la replica dell’ex presidente di Mediobanca Cesare Geronzi: «È fin troppo evidente che le dichiarazioni del dottor Nagel, riguardanti la mia persona, tendono più che a descrivere la realtà dei fatti, a trovare una giustificazione al suo operato. Insomma una scoperta ricerca di diversivi. Per quanto riguarda il mio ruolo, che peraltro nulla ha a che vedere con la vicenda in cui il dottor Nagel è coinvolto, voglio ribadire che non ho mai interferito nella operatività dei manager che hanno curato la posizione della famiglia Ligresti».

Insomma, è evaporato anche lo stile “curiale” di quello che per decenni è stato considerato il salotto buono della finanza italiana per via delle partecipazioni azionarie incrociate dei principali gruppi industriali e finanziari del Paese che qui confluivano e il cui dominus indiscusso è stato per decenni Enrico Cuccia. Una delle frasi più famose di Cuccia, passata alla storia, era che le «le azioni si pesano e non si contano». Indubbiamente vero, allora. E anche oggi non si scherza, se si pensa a come le fondazioni bancarie, pur con percentuali azionarie relativamente minoritarie nelle loro banche di riferimento, spesso vi esercitino ampio potere decisionale. Ma oggi, in un sistema di mercato aperto e internazionale dove barriere e confini praticamente non esistono più, la regola dovrebbe essere un’altra, quella che, appunto, le azioni si contano e non si pesano. E, comunque, certi timori “reverenziali” non dovrebbero più esistere.

Per questo ho trovato abbastanza sconfortante l’affermazione rilasciata in un’intervista a Repubblica il 3 febbraio scorso da Marco Pedroni, presidente di Finsoe, la cassaforte delle coop socia di maggioranza di Unipol, il quale commentando i lavori in corso dell’operazione Unipol-Fonsai e rispondendo alla domanda su cosa ne pensasse dei rimproveri che gli giungevano di salvaguardare l’esposizione di Mediobanca in Fonsai di oltre un miliardo di euro affermò: «Mi viene da dire, con una battuta, che Mediobanca è meglio averla alleata che avversaria».

D’accordo, una battuta, come lo stesso Pedroni si premura di sottolineare. Ma non si può non scorgervi tra le righe un certo provincialismo emiliano. Forse, chissà, la volontà di non turbare certi equilibri che da quelle parti contano molto, come per esempio il fatto che nel cda di Mediobanca sieda uno dei personaggi più influenti di Bologna, l’ex rettore dell’università e oggi presidente della fondazione bancaria Carisbo Fabio Roversi Monaco. Ma come, viene da osservare, il capitalismo solido e solidale espresso dalle cooperative, fondato su lavoro dignitoso di migliaia e migliaia di persone che producono tanti soldi e “veri” (altroché alchimie finanziarie), che “teme” qualche eventuale attrito con Mediobanca?

Come è lontano quel 23 aprile 1994 in cui un altro emiliano, Romano Prodi, allora al suo secondo breve mandato alla testa dell’Iri, coraggiosamente scriveva in prima pagina sulla Stampa (il quotidiano che l’Avvocato Agnelli come noto leggeva per primo all’alba, per cui il messaggio sarebbe arrivato subito e diretto all’establishment) un articolo intitolato “Perché dico alt a Mediobanca”. Un fondo in cui denunciava come «sfruttando la mancanza di regole sull’azionariato popolare Mediobanca ha potuto, senza nessun ostacolo giocare un ruolo dominante nella campagna di acquisto delle due grandi banche (Credito Italiano e Banca Commerciale, ndr) tramite i propri tradizionali alleati italiani ed esteri. A questo punto non si tratta più della semplice creazione di una galassia del Nord, ma della vera e propria costituzione di un’enorme concentrazione di potere privato che va aggiungendo alla propria tradizionale forza anche quella delle imprese pubbliche privatizzate. È bene che questo allarme venga suonato…».

Altri tempi, altre tempre. Adesso tutto è più opaco, indistinto, “buio”. Nell’estate di tre anni fa, in una delle solite interviste di poche righe che i giornali fanno ad alcuni personaggi noti per chiedere consigli sui libri da leggere in vacanza, fu interpellato anche l’economista Francesco Giavazzi (il cui suocero Francesco Cingano fu a lungo uno stimato presidente di Mediobanca). Giavazzi segnalò due libri: L’Italia in seconda classe di Paolo Rumiz e Dove è sempre notte di John Banville. Oggi sia questa tipologia di classe che quel “dove” si attagliano piuttosto verosimilmente a Mediobanca.

Francesco Maggio

Economista e giornalista, già ricercatore a Nomisma e a lungo collaboratore de Il Sole24Ore, da molti anni si occupa dei rapporti tra etica, economia e società civile. Tra i suoi libri: I soldi buoni, Nonprofit (con G.P. Barbetta), Economia inceppata, La bella economia, Bluff economy. Email: f.maggio.fm@gmail.com