Impressioni di settembre
Al netto della consueta prosa soporifera e di un richiamo al concetto di crescita decisamente troppo vago, Mario Monti due giorni fa sul Corriere della sera ha scritto un articolo che aveva perlomeno un duplice pregio: poneva domande; poneva domande giuste. In particolare, chiedeva il presidente dell’università Bocconi: «Dov’è la visione strategica del Governo? Dove sono le eventuali visioni alternative dei partiti di opposizione? Dov’è un dibattito nel Paese su questa (mettere in campo politiche concrete per la crescita e la competitività, ndr) che è la questione più importante per i nostri figli?».
Di solito gli economisti (non tutti, naturalmente, ma una vasta fetta) assomigliano al protagonista di una vecchia pubblicità che si vantava di «non dover chiedere mai». Non hanno mai dubbi, hanno sempre la ricetta pronta, sanno prevedere il futuro. Peccato che le loro certezze si rivelino il più delle volte estremamente fragili, preparino pasti del tutto indigesti e, soprattutto, non ne azzecchino quasi mai una (infatti Nouriel Roubini, che fu uno dei pochissimi a prevedere la crisi finanziaria, da due anni gira il mondo per conferenze accompagnato dalla fama di “veggente” e non mi sentirei di escludere che durante la sua recente partecipazione al workshop Ambrosetti a Cernobbio qualcuno gli abbia chiesto i numeri da giocare al Superenalotto). Al più, si baloccano in quella che un esponente di rango del ramo come John Kenneth Galbraith (che, non a caso, veniva visto dai colleghi come il fumo negli occhi) chiamava “saggezza convenzionale”, ossia quel «costante scambio di idee vuote e solenni che è così comune tra personaggi importanti e presuntuosi».
Qualche settimana fa, il nobel per l’Economia Joseph Stiglitz, ci è andato giù duro in proposito e l’ha detto chiaro e tondo: cari economisti scendete a terra, le vostre analisi sono sbagliate, usate arnesi vecchi per leggere la realtà, anzi le vostre analisi nemmeno la contemperano fondate come sono su modelli astratti e incongruenti. Smettetela, quindi, di cantarvela e suonarvela da soli perché in palio, concludeva Stiglitz, «c’è ben più della credibilità della professione, o dei policy-maker che ne usano le idee, ma la stabilità e la prosperità delle nostre economie».
Bisogna riconoscere che tra i primi a scagliarsi, a ragione, contro certa supponenza degli economisti fu il ministro dell’Economia Giulio Tremonti, che già due anni fa, tuonava: «Il capitale intellettuale della categoria è stato azzerato. Non hanno compreso quel che è accaduto e ora guardano agli effetti e non alle cause…. Chi non aveva previsto niente non è autorizzato a prevedere qualcosa. C’è stata una follia finanziaria che ha avuto molti sacerdoti e ora dobbiamo intervenire su questa follia».
Insomma, un po’ di coerenza vuole, sembrava essere il monito del ministro, che chi ha preso fischi per fischi per un po’ se ne stia buonino e faccia ammenda dei propri errori.
Poi però uno legge quello che dice Tremonti in questi giorni e qualche perplessità affiora. Per esempio, quando nella lunga intervista rilasciata sabato a Massimo Giannini di Repubblica, come prima cosa afferma: «Quello che il ceto politico non vuol capire è che la nostra dimensione è l’Europa». Detto da chi fino a qualche anno fa era un convinto euroscettico, fa un certo effetto. Oppure: «La questione meridionale non è la somma delle questioni regionali. E’ qualcosa di più e di diverso, è una questione nazionale su cui va fatta una politica nazionale e non più solo regionale». Anche qui, detto dal più leghista dei non leghisti, non lascia indifferenti.
E che idea farsi della proposta rivolta a Cernobbio a Bertinotti di improvvisare insieme un dibattito su democrazia e capitalismo? Difficile rispondere. Al più un impressione. Anzi, impressioni, “Impressioni di settembre” per la precisione, come quelle di una bella canzone della PFM che, a un certo punto, canta: «Cosa sono adesso non lo so, sono solo un uomo in cerca di se stesso».