Per favore fammi lavorare.
L’ultima frontiera del lavoro (se esistessero ultime frontiere) suonerebbe strana persino a un operaio inglese di fine ottocento: lavorare gratis. Eppure in molti, privi di prospettive professionali, accettano di interpretare il “lavoro non retribuito” come “formazione professionale”; una moda in cui l’industria culturale è all’avanguardia, convinta com’è che il lavoro intellettuale non si debba assolutamente pagare. ma gli altri settori non sono rimasti a guardare e hanno seguito l’esempio, tanto che questa curiosa usanza si è diffusa come un fungo velenoso in ogni ambito, fino a generare paradossi come quello di grandi catene di negozi alla ricerca di tirocinanti per il ruolo di commessa/o; una posizione per cui in altri tempi la formazione professionale era al massimo qualche giorno di prova.
Di converso anche chi paga, e magari bene, non perde l’occasione di farlo pesare; l’ha vissuto sulla sua pelle il signor K., in un recente colloquio presso una prestigiosissima azienda di cui taccio il nome. K. è stato fortunato: la grazia di ricevere una risposta a un cv, oltretutto mandato per email, è un lusso riservato a pochi; senza contare che ad accoglierlo è stata la direttrice in persona (che per comodità chiameremo Miranda Priestly) assieme a un importante vassallo (che non chiameremo), in un ufficio grande sei volte il suo appartamento, con soffitti tre volte più alti e per di più affrescati.
I tre erano sin da subito mal sintonizzati: lui si aspettava che gli parlassero della posizione che poteva rivestire per verificare le sue competenze in materia, loro che proponesse un impiego lui stesso, perché lavorare lì era il sogno della sua vita e non pensava ad altro da mesi. Ma queste sono sciocchezze da imputare all’ingenuità del povero K.; la curiosità è un’altra, ed è breve, anzi brevissima: è durata appena una frazione di secondo. Si tratta del momento in cui il candidato si è permesso un blando, lieve, educato e quasi invisibile contraddittorio con Miranda Priestly: un istante che è costato alla direttrice un’alzata di sopracciglio e a lui l’immediato rifiuto della candidatura. Sembra esagerato, e forse lo è: probabilmente hanno scartato K perché non aveva i requisiti adatti, eppure l’alzata di sopracciglio dà lo spunto a una riflessione. È evidente che con il mancare del lavoro vengono meno soprattutto due cose: un’identità sociale e i mezzi per farla sopravvivere. Per la seconda siamo disposti ad accettare delle condizioni inaccettabili, per la prima persino a lavorare gratis – ma così dimentichiamo che il lavoro è la produzione di un bene; un bene che viene spesso scambiato per un simbolo (il denaro) con cui si possono ottenere altri beni. In breve, si lavora per comprare altro lavoro, e l’offerta dovrebbe valere quanto ciò che si ottiene in cambio. Ne consegue che chi ottiene zero accetta che il valore del suo operato sia zero – il che sarebbe giusto solo in alcuni casi, tendenzialmente strapagati.
Un ragionamento banale come la sua inevitabile conclusione: non è strano poter contraddire un capo, né tantomeno essere pagati per il proprio lavoro, lo è il contrario. E per quanto sia difficile invertire la tendenza, finché l’assurdità di questa prassi non sarà data per scontata il lavoro non sarà un bene, ma qualcosa che si fa svogliatamente e per disperazione. Certo, chiunque cerchi un’occupazione sa che è più difficile di quello che sembra; ma se si deve cominciare da qualche parte, che si cominci rendendo all’ovvio il suo carattere di ovvietà.