Ode funebre a un pulcino.
Pochi giorni fa mi è successo qualcosa di scarsa importanza.
Il suo gatto ha catturato un pulcino di passerotto, senza ucciderlo. Lo troviamo in un angolo del giardino, che nasconde con cura il becco giallo e ci punta col suo minuscolo occhio nero. La compassione ci assale come un destino biologico ma poco dopo arriva anche la ragione; il pulcino non sa volare, il giardino ha delle mura molto alte, c’è un gatto e la madre del passerotto, ovunque sia, non verrà a riprenderlo. L’unica possibilità per la bestiola è catturarla e nutrirla finché non impara a volare. Non ne abbiamo voglia.
Nel frattempo il passerotto corre qua e là terrorizzato; la paura ha un solo volto e un uomo non la esprimerebbe meglio. Decidiamo di catturarlo, senza ammettere che toccarlo ci fa un po’ schifo. Ci allontaniamo per discutere il da farsi e il pulcino, non più spaventato dalla nostra presenza, inizia un pigolio straziante. Lo catturiamo tra pigolii disperati e lo mettiamo in una scatola. Nella mia testa il pulcino è già morto. Leggiamo le istruzioni su come nutrire un pulcino e proviamo a cibarlo con una siringa senz’ago, sciogliendo dell’uovo sodo nell’acqua. Il pulcino mangia poco e nulla. Lo teniamo fermo e tentiamo ancora – nulla. Potremmo aprirgli il becco con le mani, ma un po’ abbiamo paura di fargli male e un po’ ci fa schifo. Il pulcino corre qua e là nella scatola con la furia di un prigioniero, ma resta un condannato a morte.
Usciamo per qualche ora, lasciandolo nella scatola. Al nostro ritorno il pulcino è meno vitale, si muove male e trema. Tentiamo ancora di nutrirlo, senza successo. Ci sembra spacciato e decidiamo di liberarlo nel giardino – chiudendo il gatto in casa. Se deve morire, che muoia libero, ci diciamo. Nella notte mi auguro che muoia.
Al risveglio udiamo pigolare, il passerotto è vivo, ma non cammina quasi più, piuttosto rotola, usando come leva la zampa e l’ala destra. Forse il gatto lo aveva ferito, pensiamo. Lo rimettiamo nella scatola e lo osserviamo; sotto le ali la carne è rossa e umida, non capiamo se si tratta della normale muscolatura o di ferite. Nell’indecisione lo disinfettiamo delicatamente, e tentiamo ancora di nutrirlo. Sembra che la cosa lo faccia stare peggio. Pensiamo alla LIPU, al WWF o altri gruppi di persone più esperti di noi e – ci diciamo – abbastanza fuori di testa per impegnarsi nel salvare un pulcino che non hanno mai visto. Telefoniamo e ci consigliano di portarlo presso un centro di raccolta distante quaranta chilometri da casa. La premura che dimostrano mi fa sentire crudele. In ogni caso, non abbiamo un’auto.
Il passerotto nel frattempo si sdraia sul lato, non si muove più e trema. Proviamo a nutrirlo nuovamente, poi aspettiamo che muoia. Vorrei ucciderlo per liberarlo da questo strazio, ma non riesco a sobbarcarmi questa responsabilità. Nel frattempo la creatura entra nell’ultimo atto; inizia ad avere le convulsioni e apre il becco a intervalli regolari nel tentativo di respirare. Lo osservo, assomiglia ad un soldato morente – ci comportiamo di conseguenza, e proviamo a dargli perlomeno da bere. Ha gli occhi chiusi e il corpo è dimagrito a vista d’occhio, penso che stia morendo di fame.
Lei diventa un’infermiera compassionevole, e assiste ai suoi ultimi momenti di vita. Io anticipo il futuro e mi allontano. Lui muore. Lei piange un po’, io pure. Lo avvolgo velocemente in un giornale, lo metto in una busta e lo porto fuori per buttarlo nel cassonetto. Davanti alla portiera spalancata della nettezza mi sento in dovere di dire qualcosa. Non dico nulla.
Assieme alla sua agonizzante presenza il pulcino scompare con relativa rapidità dalle nostre vite. Se fossimo stati più crudeli non sarebbe cambiato nulla, se fossimo stati più buoni ci sarebbe forse un passerotto in più – ma è poco probabile.
Scrivo un discorso funebre con la stessa compassionevole indifferenza con cui l’ho visto morire; mi libero di lui, lo utilizzo per i miei scopi e fingo di renderlo utile. Quel che mi resta del pulcino è l’immagine di un corpicino smagrito che apre il becco convulsamente, e una sensazione quando sono nudo allo specchio, come di vedere un animale.