Beethoven cantava sotto la doccia?
Uno dei tanti misteri inutili che talvolta bussano alle nostre porte è “perchè si canta sotto la doccia?”. Il San Francisco Exploratorium suggerisce che la nostra voce “suona meglio” in un piccolo spazio come la doccia, in quanto il suono riflettendosi sui muri si arricchisce migliorando sia i bassi che il volume. Altri sostengono che sia il senso di sicurezza e di totale privacy che ci porta ad esprimerci vocalmente senza timore.
Entrambe le risposte mi sembrano plausibili, anche se prima di una veloce ricerca su internet la pensavo diversamente. Pensavo una tra le teorie poco-credibili-che-suonano-bene, uccise quotidianamente dalle veloci ricerche su internet. Il rumore, mi dicevo, ci spaventa terribilmente, soprattutto se privo di senso. Lo scrosciare dell’acqua è sia perfettamente – ipnoticamente – musicale che orribilmente vuoto e disorganizzato. Come mille altre cose, è qualcosa senza senso che allo stesso tempo urla ho un senso, e come tale va coperto. Bisogna organizzarlo, tradurlo, fargli parlare una lingua che sta a metà tra la sua e la nostra. Poi ho pensato alla sordità di L.V. Beethoven, e mi sono chiesto se cantasse sotto la doccia. Il silenzio fa molta più paura del rumore. Mi sono immaginato Beethoven cantare (urlare) le sue sinfonie sotto una doccia muta, con una musica che riesce ad organizzare e tradurre il silenzio più nero.
Per chi vuole davvero la risposta alla domanda, la moderna doccia nasce nella prigione di Bonne-Nouvelle (Rouen, Francia) nel 1872, circa quaranticinque anni dopo la morte di Beethoven. Io continuo a vederlo sotto la doccia in ogni caso, mentre pensa (cazzo, pensa) ad alta voce questo, e concordo che “…dal tubare della colomba allo scrosciare della tempesta, dall’impiego sottile dei sagaci artifici al tremendo limite in cui la cultura si perde nel tumultuante caos della natura, egli ovunque è passato, tutto ha sentito. Chi verrà dopo di lui non continuerà, dovrà ricominciare, perché questo precursore ha condotto l’opera sua fino agli estremi confini dell’arte. » (Franz Grillparzer, orazione funebre, 29 marzo 1827)