Quattro cose sulle elezioni di metà mandato
Era il risultato più scontato
Una delle regole non scritte delle elezioni americane è che alle elezioni di metà mandato il partito del presidente perde, e se siamo nel secondo mandato del presidente spesso straperde. È successo anche questa volta. Il risultato in questo caso è stato reso più ampio dal fatto che i democratici si trovavano a difendere seggi in posti improbabili come l’Alaska: erano in ballo i seggi che avevano ottenuto nella larga vittoria del 2008, quella in cui per la prima volta dal 1992 si erano ripresi Casa Bianca e Congresso in un colpo solo.
Era un po’ un-referendum-su-Obama
I giornali italiani non vedevano l’ora di titolare cose tipo “schiaffo a Obama” o “l’America volta le spalle a Obama”, ed è un’esagerazione: per il rinnovo del Senato, che era la cosa più importante in ballo, hanno votato 34 stati su 50, non “l’America”. Però è vero che i repubblicani hanno giocato l’intera campagna elettorale – ma potremmo dire l’intera loro attività politica da sei anni a questa parte – sull’opposizione frontale a Obama, e sull’associare a Obama i candidati democratici locali. Se questa strategia ha portato a una larga vittoria in queste elezioni di metà mandato, evidentemente ha pagato: sarebbe un errore dire il contrario. Ma anche qui sarebbe il caso di andarci piano con i giudizi più perentori: aspettare quantomeno di guardare la distribuzione globale del voto alla Camera, l’unica elezione che coinvolgeva l’intero elettorato. Probabilmente i repubblicani avranno preso in tutti gli Stati Uniti circa 3 o 4 punti percentuali in più dei democratici: è un distacco solido ma non è “l’America volta le spalle”. È il sistema maggioritario, winner takes all.
Le elezioni presidenziali sono un’altra storia
Nel 1994 i repubblicani hanno vinto le elezioni di metà mandato e nel 1996 hanno perso da Clinton; nel 2010 i repubblicani hanno vinto le elezioni di metà mandato e nel 2012 hanno perso da Obama. Ci sono molti esempi del genere. Queste elezioni sono importanti ma sono queste elezioni; le prossime sono altre. Le elezioni presidenziali in un sistema come quello americano le fanno i candidati. I repubblicani sono riusciti a limitare i danni che si sono autoinflitti negli anni scorsi a causa della loro ala più estrema – leggere questo articolo del New York Times, per chi vuole approfondire – e hanno trovato la vittoria che dovevano trovare: la vera sorpresa sarebbe stata un risultato diverso da questo.
I democratici devono comunque preoccuparsi
Proprio perché le elezioni le fanno i candidati, il motivo per cui i democratici dovrebbero preoccuparsi è che oggi non sembrano avere tra le mani un candidato davvero forte. Intendiamoci, Hillary Clinton è attrezzatissima e sarebbe probabilmente un ottimo presidente, di sicuro il più esperto e competente degli ultimi, boh, sessant’anni. Ma da quando ha lasciato l’incarico al dipartimento di Stato l’apprezzamento degli elettori nei suoi confronti è tornato ai livelli precedenti al 2008, che non sono esaltanti per chi vuole candidarsi alla presidenza degli Stati Uniti, e il suo impegno per alcuni candidati in queste elezioni di metà mandato non è stato un valore aggiunto. Hillary Clinton è tuttora la candidata favorita per la nomination, ma è favorita nello stesso modo in cui lo era a questo punto nel 2006-2007: sapete come andò a finire. Il problema dei democratici è che non si vede un Obama all’orizzonte: né come talento politico, né come coraggio di sfidare con poche armi la corazzata di campagna elettorale che i Clinton metteranno in piedi. Nemmeno i repubblicani hanno tra le mani il miglior candidato possibile ma il gruppo Paul-Christie-Bush-Ryan è sicuramente migliore di quello circense Bachmann-Santorum-Perry-Romney-Gingrich di quattro anni fa. E – tranne Bush, forse – sono tutti candidati che possono ancora convincere gli americani a cambiare opinione sul proprio conto, o a farsela da zero; Hillary Clinton farà moltissima fatica a convincere chi non si fida di lei.