Carlo e Nello
Il fratelli Carlo e Nello Rosselli, assassinati il 9 giugno del 1937, hanno fatto parte della mia educazione civile da ragazzino. La mamma, quando andavamo a portare i fiori ai parenti sepolti nel Cimitero di Trespiano, sulle colline di Firenze, non mancava mai di accompagnarci, a destra dell’ingresso, a deporre due rose rosse sulla tomba di Carlo e Nello (inizialmente furono sepolti, dopo un funerale affollatissimo che attraversò Parigi partendo dalla Maison des Syndacats, nel cimitero di Père-Lachaise, ma nel 1951 i familiari ne traslarono le salme in Italia).
Sulla loro lapide è scolpita la spada di fiamma, simbolo del movimento da loro fondato, “Giustizia e Libertà”, e la scritta, dettata da Pietro Calamandrei:
“GIUSTIZIA E LIBERTÁ
PER QUESTO MORIRONO
PER QUESTO VIVONO”
La mamma non dimenticava mai di dirci, da fiera comunista, che proprio per la Giustizia e la Libertà bisogna vivere, ma aggiungeva subito preoccupata: “morire meglio di no!”.
Sempre Calamandrei, che era stato professore del babbo, aveva fatto apporre una lapide in via Giusti dove i Rosselli, appartenenti a una famiglia ebraica fiorentina, avevano l’abitazione. Lì iniziarono a organizzare le prime riunioni di oppositori al Fascismo e, nel 1925, redassero il primo foglio clandestino antifascista: “Non mollare”. Davanti a quella lapide passavamo ogni Sabato andando col babbo a visitare e giocare nel vicino Orto botanico (il mediceo Giardino dei Semplici: “Un Luogo Pubblico, dove si coltivassero le piante native di climi e paesi differentissimi, affinché i giovini Studenti, le potessero in breve spazio di luogo, con facilità e prestezza imparare a riconoscere”, aveva scritto il fondatore Luca Ghini, nel 1543, come ricordava Carlo Rosselli).
La breve vita di Carlo (1899) e Sabatino Enrico, detto Nello (1900), cugini di Alberto Moravia (Alberto Pincherle), fu assai movimentata, prima della loro tragica fine, e la mamma ce li raccontava come due eroi di un libro di avventure. Ammirava il fatto che i due fratelli fossero stati legatissimi e additava a Giovanni e a me questo esempio di rapporto fraterno (che abbiamo in effetti rispettato). Per lei erano un modello di coerenza di ideali e coraggio (che troppo pochi italiani, anche coloro che non erano d’accordo con il Fascismo, allora ebbero).
Alle nostre inopportune domande come mai suo padre, pur odiando i fascisti, se ne fosse stato zitto e buono a fare il suo lavoro di dirigente dell’Ufficio delle imposte, lei rispondeva che “il nonno non poteva mica mettere a repentaglio la famiglia!” (a dire il vero una piccola cosa la fece: per non far indottrinare e sfilare la figlia con la camicia nera al sabato, la mandò a scuola, pur essendo ateo, in collegio di suore dove stavano rintanate ragazze ebree, con documenti falsi, e figlie di moderati antifascisti, come il futuro primo ministro democristiano Adone Zoli, che restituì la salma, del suo nemico e conterraneo Mussolini, alla famiglia). Ma la mamma ometteva che anche i fratelli Rosselli avevano mogli e figli: famiglie che soffrirono moltissimo per le loro scelte, con una scia di dolore che si è protratta fino al 1996 quando Amelia, figlia di Carlo, grande poetessa e traduttrice dall’inglese, si tolse la vita: “Ma se la morte vinceva era la corrosione ad impedirmi di rivelare agli altri ciò che mancava in me (…) Le mie condizioni sono di naufragare!”, Variazioni belliche).
Pur essendo due intellettuali (Carlo, filosofo e teorico: insegnò per un breve periodo, prima che i fascisti lo aggredissero e facessero cacciare, Istituzioni di economia politica all’Università di Genova; Nello, storico, allievo di Gaetano Salvemini) furono persone che si buttarono senza risparmio nella lotta e nella pratica politica per l’affermazione degli ideali socialisti e dell’antifascismo. Assai diversamente, e cinicamente li vedeva allora il cugino Alberto Moravia: “Li guardavo come degli illusi. Senza rendermene conto ero smaliziato, forse perché non ero mai stato a scuola. La vita mi aveva provato. Ero molto realistico. Pensavo che fossero illusi e ottocenteschi e con un sacco di idee generose ma poco pratiche nella testa (…) In casa loro a Firenze c’era un’atmosfera in qualche modo romantica, che giudicavo dentro di me ingenua (…). Non ero affatto fascista, ma avevo una sensibilità moderna che era propria anche dei fascisti e comunque delle giovani generazioni. Avevo sempre provato antipatia per il fascismo e al tempo stesso, in maniera contraddittoria, sentivo che gli antifascisti erano perdenti” (A. Moravia, Vita di Moravia, 1990).
Dopo una giovanile sbandata a favore dell’intervento italiano nel grande macello della Prima Guerra Mondiale (l’unica volta che furono in sintonia con l’allora socialista
Benito Mussolini), i Rosselli si erano legati all’idea di un socialismo riformista non marxista, direttamente ispirato dal laburismo britannico e alla tradizione storico politica del radicalismo liberale e libertario. Per quel tempo erano in fondo, politicamente, dei “moderati” ostili a ogni tentativo rivoluzionario. Ma non esitarono a comprendere la portata del pericolo fascista e a schierarsi tra i primi in un’opposizione intransigente e militante. Carlo, che era legato a Piero Gobetti e Giacomo Matteotti, e poi a Claudio Treves e Giuseppe Saragat, nel 1926 fu arrestato per aver organizzato, con Sandro Pertini e Ferruccio Parri, la fuga in motoscafo di Filippo Turati in Corsica. Durante il processo si difese attaccando il regime: “Il responsabile primo e unico, che la coscienza degli uomini liberi incrimina è il fascismo […] che con la legge del bastone, strumento della sua potenza e della sua Nemesi, ha inchiodato in servitù milioni di cittadini, gettandoli nella tragica alternativa della supina acquiescenza o della fame o dell’esilio”. Condannato al confino a Lipari, il 27 luglio 1929 Rosselli evase dall’isola, stavolta con un piccolo yacht, sempre guidato dall’amico ed esperto capitano Italo Oxilia (morto nel 1971 dimenticato e in miseria). Assieme a Carlo evasero Francesco Fausto Nitti ed Emilio Lussu, diretti in Tunisia, da dove raggiunsero poi la Francia (la vicenda fu ben raccontata, nel 1965, da Marco Leto nel documentario Fuga da Lipari).
Nel 1929 a Parigi, con Lussu, Calamandrei e Nitti, e un gruppo di fuoriusciti organizzati da Salvemini, Carlo Rosselli fu fra i fondatori del movimento antifascista “Giustizia e Libertà”. Nello stesso anno, pubblicò, in francese, Socialisme liberal. Il “socialismo
liberale” propugnato da Rosselli era una sintesi della tradizione del marxismo revisionista, democratico e riformista e una critica appassionata del marxismo ortodosso (colonna portante della stragrande maggioranza dei vari schieramenti politici socialisti dell’epoca), e un attacco contro lo stalinismo della Terza Internazionale che, con la formula del “socialfascismo”, accomunava sciaguratamente socialdemocrazia, liberalismo “borghese” e fascismo. Palmiro Togliatti, definì Socialismo liberale un “magro libello antisocialista” e Rosselli “un ideologo reazionario che nessuna cosa lega alla classe operaia”.
Allo scoppio, nel 1936, della Guerra civile spagnola, Carlo prima organizzò l’appoggio internazionale alle forze repubblicane, criticando l’immobilismo di Francia e Inghilterra, e poi partì per andare a combattere al comando di una Brigata Matteotti. In un discorso che tenne a Radio Barcellona (il il 13 novembre 1936) Rosselli disse: “È con questa speranza segreta che siamo accorsi in Ispagna. Oggi qui, domani in Italia. Fratelli, compagni italiani, ascoltate. È un volontario italiano che vi parla dalla Radio di Barcellona. Non prestate fede alle notizie bugiarde della stampa fascista, che dipinge i rivoluzionari spagnuoli come orde di pazzi sanguinari alla vigilia della sconfitta”. Ferito sul fronte aragonese Carlo tornò nel maggio del 1937 in Francia. Nello rimase a lungo “fuori gioco”: arrestato il 3 giugno del 1927 fu condannato al confino nell’isola di Ustica, dove stette soltanto un anno ma, dopo la fuga del fratello, fu condannato a 5 anni di confino (nuovamente a Ustica e poi a Ponza). Nel maggio del 1937 ottenne il passaporto per raggiungere il fratello in esilio in Francia (e questo fu, secondo Calamandrei e parecchi storici, il primo tassello della trappola mortale che si stava preparando contro di loro).
Il 9 giugno del 1937, nella località termale di Bagnoles-de-l’Orne, in Normandia, i fratelli Carlo e Nello Rosselli vennero sequestrati e uccisi da una squadra di militanti
dell’organizzazione di estrema destra francese Cagoule, guidati dal tipografo Jean Filliol. I loro corpi verranno ritrovati l’11 giugno. Mandante dell’omicidio era il regime fascista italiano tramite il tenente colonnello dei Carabinieri, e capo della sezione controspionaggio, Santo Emanuele; il generale Mario Roatta (futuro Capo di stato maggiore dell’esercito e criminale di guerra in Jugoslavia, rifugiatosi dopo la guerra in Spagna); il colonnello Paolo Angioy e il maggiore, sempre dei Carabinieri, Roberto Navale. Supervisore dell’operazione Filippo Anfuso, capo di gabinetto del Ministro degli esteri Galeazzo Ciano.
Jean Filliol, chiamato dai suoi stessi camerati Le tueur (“l’assassino”), ricercato dalla polizia francese per l’omicidio dei fratelli Rosselli, si rifugiò a Sanremo sotto la protezione delle autorità italiane che, alla richiesta di estradizione avanzata dalle autorità francesi, lo fecero rifugiare in Spagna, a San Sebastián. Nel 1941, con l’ instaurazione del regime collaborazionista di Vichy, rientrò in Francia dove collaborò a vari massacri compiuti dai tedeschi. Con la liberazione della Francia, Filliol si rifugiò nuovamente in Italia dove, il 23 marzo 1945, venne ferito leggermente in un conflitto a fuoco con i partigiani a Grosio, in Valtellina.
Condannato a morte in contumacia dalle autorità francesi (il 27 novembre 1948), Filliol riparò a Madrid, con la protezione e il finanziamento degli industriali francesi che lo avevano foraggiato prima della guerra, dove diresse la filiale spagnola dell’Oréal e morì in una data rimasta imprecisata. Quando, nel Sessantotto, mio fratello ed io, come molti
nostri compagni, attaccammo alla parete della nostra cameretta, un manifesto virato in blu con il volto di Ernesto Che Guevara, la mamma lo guardò e disse: “In fondo era uno come i fratelli Rosselli…”.