La guerra agli anziani
Tra le tante previsioni catastrofiche che si fanno in questi giorni c’è stata quella recente del presidente dell’INPS, Pasquale Tridico, che ha affermato ci siano i soldi per le pensioni solo fino a maggio. La notizia segue settimane di paura e affannosa emergenza nelle quali si è spesso ripetuta, la constatazione che a morire di Coronavirus sono soprattutto gli anziani (e già con qualche patologia), e a mezza voce si è suggerito che, nei reparti di terapia intensiva, spesso si sia costretti a operare delle “scelte”, quando le macchine per dare ossigeno o addirittura i letti sono già tutti occupati. Scelte ovviamente definite “drammaticamente dolorose”: per salvare i giovani e “sacrificare” gli anziani, giudicati avere meno possibilità di guarire.
C’è tutta un’ideologia e un diffuso senso comune, nefandi, dietro queste affermazioni, ed eventuali scelte. Un’ideologia che ritiene che l’uomo debba essere messo al servizio dell’economia, invece che l’economia al servizio dell’uomo. Un selezione darwiniana in nome dell’efficienza, della produttività e pure del risparmio. La salute, lo si è visto e si vede spesso, anche in certe esitanti scelte fatte in questi giorni, non viene prima di tutto.
Si afferma, quasi con rammarico, che l’Italia (come il Giappone) è un “paese di vecchi”. Invece si dovrebbe enfatizzare che questo della longevità è uno dei segni della civiltà. Se in un paese la vita si allunga significa che si è raggiunto un certo benessere sanitario e che, se uno si ammala dopo una certa età, lo si cura e si cerca di permettergli di fare ancora una vita decente. In Italia, oltre al ruolo importantissimo delle famiglie (alle quali spesso tocca l’onere maggiore del sostegno al vecchio e al malato), e di certe istituzioni religiose, esiste ancora un sistema sanitario basato prima di tutto su valori umani (nonostante, e si vede anche con i problemi dell’emergenza odierna, si sia fatto di tutto, negli ultimi decenni, per smantellarlo in nome degli interessi economici, favorendo spesso le imprese private: non a caso gli Ospedali oggi si chiamano “Aziende ospedaliere”). E nonostante tante inefficienze, e pratiche errate, gli anziani e i vecchi non vengono per principio abbandonati al loro “destino” di sofferenza ed emarginazione.
Lo scrittore argentino Adolfo Bioy Casares immagina, nel romanzo Diario della guerra al maiale (Diario de la Guerra del Cerdo, 1969; trad. it. Cavallo di ferro, Roma 2007), che un bel giorno, all’improvviso, i giovani di Buenos Aires, decidano che chi abbia più di cinquant’anni è inutile alla società. Si scatena così una strana e misteriosa guerra: la “guerra al maiale”, e per una settimana intera i giovani si impegnano a dare la caccia ai vecchi e sterminarli.
Lo storico Alessandro Barbero (in una intervista di Nicola Mirenzi su “Huffigton Post”, alcuni giorni fa, ha detto: “Fin dagli anni Cinquanta, gli scrittori di fantascienza americani hanno cominciato a immaginare un futuro nel quale l’uomo sarebbe stato messo di fronte a una scelta crudele: uccidere gli anziani, troppo costosi da mantenere, per salvare il sistema. In effetti, questo è l’incubo della nostra società. E non mi sorprende che, in questa circostanza, il tema emerga. L’astratta ragione economica, di fronte alla decimazione dei vecchi, potrebbe dire: ‘Bene, d’ora in poi avremo un costo in meno da sostenere’. La ragione umana, invece, non può prendere in considerazione una conclusione del genere. Poiché dice: ‘Non è l’uomo che deve essere messo al servizio dell’economia, ma l’economia al servizio dell’uomo’.
La confusione tra maturità e immaturità, il prolungarsi della “giovinezza” fino all’età adulta avanzata, il disprezzo della vecchiaia, minacciano di portare oggi, esacerbati da una crisi economica che ridurrà sempre di più i posti di lavoro e lo spazio di realizzazione per i giovani, all’emergere di un conflitto violento tra generazioni sempre più agli antipodi per interessi e cultura.
La vecchiaia (e soprattutto il modo in cui è trattata) è diventata la cartina di tornasole del cambiamento dei costumi e della mentalità. Che cos’è oggi la vecchiaia? “How Terribly Strange To Be Seventy” (Com’è terribilmente strano avere settant’anni), cantavano Simon e Garfunkel in Old Friends (il loro “concept album” sul ciclo della vita). Proprio nell’anno della rivolta giovanile, pubblicarono il disco Bookends (1968), che, oltre alla canzone citata, conteneva Voices of Old People, costituita interamente da conversazioni di persone anziane registrate personalmente, e con grande rispetto, da Art Garfunkel in varie case di cura e ospizi degli Stati Uniti.
Un’altra canzone del disco, Mrs Robinson, era stata la colonna sonora del film Il Laureato (1967) di Mike Nichols, basato sul romanzo omonimo (1963) di Charles Webb che narra dell’amore tra una matura signora e un giovanotto impacciato e immaturo (Benjamin “Ben” Braddock, interpretato da un perfetto Dustin Hoffman), a disagio con il mondo degli adulti. Il libro e il film avevano un “lieto fine” ma lo spettacolo dei giovani non era incoraggiante.
Nelle situazioni di stabilizzazione, sostenne lo psichiatra-filosofo polacco Antoni Kępiński (al quale il pensiero di Karol Wojtyła deve molto), nel volume Rytm życia (Il ritmo della vita, 1968), i vecchi sono necessari, rafforzano la realtà stabilizzata (il conservatorismo è una delle caratteristiche della vecchiaia); nelle situazioni precarie, invece, con molti cambiamenti sociali, i vecchi sono considerati negativamente, perché rappresentano ciò che è passato e sono considerati di ostacolo ai cambiamenti.
In una società destinata ad essere sempre più “vecchia”, la discrepanza tra uomini e donne maturi è particolarmente evidente: gli uomini tornano spesso a comportarsi come adolescenti anche quando hanno i capelli bianchi e le rughe, mentre le donne (quando non cedono alle lusinghe dei chirurghi) acquistano un fascino più sobrio sia nell’aspetto che negli atteggiamenti.
La vecchiaia è in sé una guerra. Lo ha scritto molto bene Mauro Portello, in un saggio intitolato Che vecchio potrei essere? (“doppiozero”, 19/VIII/2013): “Di fronte alle prove estreme che la vecchiaia chiede a un individuo, fatte di resistenza fisica e psichica, di capacità di sopravvivenza in terreno ostile, la vita sembra essere (stata) solo un lungo addestramento per affrontare questa ultima guerra. C’è chi si arrende, chi lotta eroicamente, chi passa al nemico, chi muore in battaglia, chi nelle retrovie mentre netta cessi. Ma è una guerra, ed è una guerra pura, per così dire, svincolata dalla possibilità di un esito felice, il finale è imposto. Ci si batte non per ‘vincere’, ma, semplicemente, in quanto esseri appartenenti alla vita”.
Portella offre una campionatura ironica dei vari “tipi di vecchiaia” e conclude: “Il fatto è che la vecchiaia è un pensare se stessi come esseri da salvare, una sorta di meta-pensiero, ci si vede come gli esiti di un certo investimento, e non si pensa più all’investimento, ma ai suoi frutti, solo a quelli. Per questo, credo, è terribilmente strano. Dopo un’esistenza di prudenze, accaparramenti, risparmi, accantonamenti, gruzzoli e riserve, con la vecchiaia arriva l’ora di spendere e consumare, centellinando; e si spende e consuma solo ciò che si è riusciti a mettere da parte.
Non intendo qui riferirmi allo status economico delle persone, quello ha un’evidenza tutta sua (drammaticamente attuale). Io penso piuttosto al capitale interiore, quello, per altro, con cui ci si ritroverà a combattere anche il nostro status economico. Al netto delle ‘impurità’ del mondo e delle ‘imperfezioni’ dell’individuo, la mia “azione” da vecchio godrà o patirà dei limiti che avrò stabilito per me, e probabilmente solo io sarò il responsabile della mia appartenenza a questa o quella tipologia di vecchiaia”.
Il tradimento tra le generazioni sta al centro del romanzo di Luigi Pirandello I vecchi e i giovani (1913). Un libro fondamentale per capire la genesi del Fascismo in Italia, ma ancora attualissimo, come chiave di lettura della dialettica tra illusioni e delusioni che tiene separate le generazioni e attizza i conflitti tra padri e figli, vecchi e giovani. Nel finale del romanzo, Pirandello affida alle parole dell’“intellettuale” don Cosmo Laurentano, principe di Valsanìa, la sua amara filosofia:
“Una cosa è triste, cari miei: aver capito il gioco! Dico il gioco di questo demoniaccio beffardo che ciascuno di noi ha dentro e che si spassa a rappresentarci di fuori, come realtà, ciò che poco dopo egli stesso ci scopre come una nostra illusione, deridendoci degli affanni che per essa ci siamo dati, e deridendoci anche, come avviene a me, del non averci saputo illudere, poiché fuori di queste illusioni non c’è più altra realtà…(…) Bisogna vivere, cioè illudersi; lasciar giocare in noi il demoniaccio beffardo finché non si sarà stancato; e pensare che tutto questo passerà…passerà…”.
Mi pare che ogni battaglia mascherata da problema generazionale (vecchio contro nuovo, giovani contro anziani) sia molto limitante e possa essere persino pericolosa. Il merito non è infatti una questione generazionale, come lo è invece la prestanza fisica, che sfiorisce, purtroppo, con gli anni.
Il buon insegnante, dirigente, artista, scienziato, tecnico, magistrato, operaio, scrittore, giornalista, non si giudica dagli anni che ha, anzi: l’esperienza e la maturità spesso contano molto nel buon esito del loro lavoro. Al politico con anni di esperienza, invece, in certi momenti storici, sono preferibili giovani ricchi di energia e del “coraggio dell’inesperienza”. Il peso negativo degli anni trascorsi, vale per uno sportivo o una ballerina, e forse per un matematico (se si deve stare alla constatazione statistica che i geni dei numeri esprimono le loro massime potenzialità in giovane età). Ma, negli altri casi, è evidente, che l’anzianità e la lunga esperienza stanno alla base delle maggiori capacità professionali o artistiche.
Gli anziani, a un certo punto, possono avere poco da perdere e molta esperienza. In alcune occasioni potrebbero diventare una sorta “nuova classe rivoluzionaria”: ”S’avanza uno strano soldato…”, cantava Dario Fo nello spettacolo Vorrei morire anche stasera se dovessi pensare che non è servito a niente (1970). C’è una tradizione secolare alla base di queste contrapposizioni generazionali: quando si vuol trovare un argomento facile (perché semplificatorio) per affermare il proprio diritto ad avere un posto che scalzi chi lo sta occupando, quale migliore del richiamo all’anagrafe? Dal punto di vista dell’impatto comunicativo, cosa c’è di più efficace (perché facilmente comprensibile) di gridare “avanti i giovani, via i vecchi!”?
La storia del Novecento ci ha mostrato però chiaramente che questa cultura giovanilistica e immatura, e la pratica basata su di essa, è in realtà assai reazionaria e foriera di disastri: la più grande esaltazione del mito della gioventù è stata fatta dai regimi totalitari. Invece, la forza sta proprio nell’unire il meglio della gioventù con il meglio dell’anzianità (come nel mito del puer-senex).
Le poche rivoluzioni, tutto sommato positive, della storia dell’umanità sono quelle che hanno visto alleati vecchi e giovani, esperienza ed energia, maturità e immaturità. Negli ultimi cento anni: le guerre di liberazione nazionale (dalle guerre partigiane alle lotte guidate da personaggi, non certo giovinetti, come Gandhi e Mandela) e i movimenti democratici nell’Est Europeo. La maturità spinge alla ricerca delle alleanze e media i conflitti, l’immaturità invece cristallizza, esaltando un’indefinita gioventù, le età e le stupidità.