La mostra più bella che ho visto quest’anno
La più bella mostra che ho visto nel 2019 è stata “Il sarcofago di Spitzmaus e altri tesori” (Fondazione Prada, Milano, 20 settembre 2019-13 gennaio 2020), organizzata in collaborazione con il Kunsthistorisches Museum di Vienna. La mostra riunisce 538 opere d’arte e oggetti selezionati dal regista cinematografico Wes Anderson (Houston, 1969) e dall’illustratrice, designer e scrittrice Juman Malouf (Beirut, 1975) e provenienti da 12 collezioni del Kunsthistorisches Museum e da 11 dipartimenti del Naturhistorisches Museum di Vienna.
Il titolo della mostra rende omaggio a una delle opere esposte, il sarcofago di Spitzmaus, una scatola di legno egiziana, il sarcofago di un toporagno del IV secolo a.C. Alcuni si sono lamentati per il fatto che le didascalie degli oggetti esposti fossero illeggibili. Ma proprio questo è lo spirito delle Wunderkammer (a cominciare da quella cinquecentesca di Rodolfo II: alcuni degli oggetti oggi esposti vengono da lì), che è ammaliare il visitatore con le suggestioni degli accostamenti più strani. Non serve sapere (anzi “rovinerebbe” lo spettacolo!) l’epoca, la provenienza e il titolo degli oggetti. Questa bellissima istallazione va apprezzata facendo finta di trovarsi, appunto, in una “camera delle meraviglie” dove il Signore che le ha raccolte se n’è andato di là non volendo spiegarci niente, perché questa non è una “mostra”, con un apparato didattico scientifico come la intendiamo oggi.
La Stanza delle meraviglie (Wunderkammer) è lo scrigno delle collezioni, la vetrina che il Signore mostrava ad amici e ospiti per impressionarli e stupirli. Era chiamata anche “Stanza dell’arte” (Kunstkammer): ma per “arte” si intendeva non l’arte figurativa o plastica, bensì il prodotto della tecnica, il manufatto. Per meravigliare, le cose debbono essere “mai viste”, venire da lontano: lontane nel tempo, antiche (archeologia) o lontane geograficamente e culturalmente (etnografia, botanica). Erano luoghi stracarichi di oggetti e opere d’arte, come si vede bene nel dipinto di Frans Franckenl, Cabinet d’amateur. Testimoniavano dell’amore del sapere dei signori, che amavano occuparsi di astrologia, matematica e scienze. Il collezionismo nasce appunto da questi interessi: studiando l’astrologia i signori collezionavano mappamondi, sfere armillari ecc; occupandosi di scienza, raccoglievano strani animali imbalsamati, importati da terre lontane. Le Wunderkammer come ha scritto Krzystof Pomian, all’origine del Museo in senso moderno: un luogo di raccolta, conservazione ed esposizione. Perché Museo è “ogni insieme di oggetti naturali o artificiali, mantenuti temporaneamente o definitivamente fuori del circuito di attività economiche, soggetti a una protezione speciale in un luogo chiuso sistemato a tale scopo, ed esposti allo sguardo del pubblico”.
Le Camere delle meraviglie sono l’espressione dell’“amore del sapere”: ordinate o alla rinfusa vi si raccolgono gli oggetti che rimandano ai saperi più strani e lontani, per suscitare meraviglia e rendere evidente lo stato sociale dei proprietari.
La società di fine Cinquecento e del Seicento (a cavallo tra la fine del Rinascimento e l’inizio dell’affermazione della Scienza che porterà all’Illuminismo) cerca di appropriarsi di tutto il sapere umano e d’accedere al mito dell’enciclopedismo. Le Camere delle meraviglie sono il simbolo di un trapasso: il Caos che si accumula e che, con la Scienza, si tenta di ri-ordinare. Ma è una Scienza ancora spuria, intrisa di magia e alchimia. I primi signori delle Wunderkammer praticavano esperimenti alchemici. Accatastavano materiali svariati per sintetizzarli in una nuova unità, trasformando così quelle stanze in laboratori per scoprire o produrre la Pietra filosofale (Elitropia): la pietra che trasforma le altre pietre in oro.
Le prime Wunderkammer furono, probabilmente, quella (iniziata nel 1390) da Jean Valois, duca di Berry, fratello di Carlo V. Poi vennero quella allestita dall’arciduca Ferdinando II del Tirolo (1529-1595), nel 1564, nel castello di Ambras, presso Innsbruck e il Museo creato da padre Athanasius Kircher creato nel Collegio Romano a Roma nel 1651. Ma lo Studiolo (1570) di Francesco I de Medici, e poi la Tribuna degli Uffizi (1584-1601), assieme alla Camera delle meraviglie di Rodolfo II nel Castello di Praga (1587-1605), sono la forma più perfetta e articolata di Camera delle meraviglie, anche perché il connubio tra arte (pittura e scultura) e mirabilia funziona sotto l’insegna dell’alchimia.
Siamo agli albori di una scienza, che è curiosa e pasticciona (com’era l’alchimia) ma, proprio per questo, può stare ancora accanto all’arte, all’artigianato e anche alla paccottiglia meravigliosa. Ma proprio in questa confusione tra arte e curiosità, esperimenti strambi e manufatti esotici, meraviglie naturali e bizzarrie meccaniche, sta il segreto, e il delicato equilibrio delle Wunderkammer. Con la metà del Settecento, le collezioni d’arte prenderanno la loro strada da una parte (divenendo sempre di più dei musei di pittura e scultura) e le raccolte naturalistiche diventeranno, dall’altra, luoghi di studio e di ricerca, legati alle università.
L’esito finale delle Camere delle meraviglie è una nuova idea di produzione artistica che, più di un gesto estetico, è l’espressione dei multiformi aspetti della creatività umana, che ha imparato a servirsi anche delle macerie e degli scarti per tentare di dare un ordine (Kosmos) al Kaos della nostra esistenza.
Anche la Storia dell’arte sembrò, in alcuni pionieri-visionari degli inizi del Novecento, essersi accorta di questa necessità di riordinare, senza le gabbie storicistiche, la produzione artistica del passato, per indagare i fili sotterranei che uniscono i vari momenti e i differenti luoghi dell’avventura umana e della sua psiche.
Le Camere delle meraviglie vengono lette non soltanto come collezioni di opere d’arte, ma anche come modi di interpretazione del mondo. Arte e etnografia/antropologia si avvicinano sempre più. Colui che nella sua visionaria follia, accompagnata da un’inesauribile curiosità e da un senso estetico particolarissimo, fu l’iniziatore del nostro modo di guardare all’arte fu il figlio inquieto di una dinastia di ricchi banchieri di Amburgo: Aby Warburg (1866-1929), grande studioso dell’arte rinascimentale italiana, ma soprattutto, delle IMMAGINI, come memorie e testimonianze dei moti dell’animo.
Il suo Atlante della memoria (Mnemosyne), al quale iniziò a lavorare nel 1923, è una sorta di Camera delle meraviglie sotto forma di pannelli, simili a un album di figurine dove vengono appiccicate tutte le immagini (dipinti, statue, reperti archeologici, foto di oggetti ecc) che servano a tentare di ricomporre una sorta di antropologia delle “forme del pathos”, delle emozioni (Pathosformel).
È stato uno storico dell’arte assai atipico, come il francese Georges Didi-Huberman, a sottolineare l’importanza del lavoro di Warburg e a metterlo in relazione con la ricerca antropologica più avanzata, della quale fece anche parte l’italiano Ernesto De Martino. Ne la Storia dell’arte e anacronismo delle immagini (2000), e soprattutto ne L’immagine insepolta. Aby Warburg, la memoria dei fantasmi e la storia dell’arte (2002), Didi-Huberman sostiene che il lavoro di Warburg è davvero simile alla creazione di una sorta di Camera delle meraviglie per decrittare il mondo delle imagini utilizzando un materiale eterogeneo raccolto pazientemente con intuizioni coraggiose e anticonformiste. Per poter far questo si è dovuto lasciare dietro le spalle un’idea di Tempo come sequenza ordinata, e addirittura progressiva ed evolutiva, di fatti e oggetti: “Solo attraverso l’anacronismo (irruzione di un’epoca in un’altra) è possibile rompere la dinamica chiusa della cronologia e accostare le immagini senza ridurle a reperti di un corpus monumentale, a puri feticci o fonti documentali. Come sostenne Walter Benjamin occorre pensare insieme tempo e immagine, anzi collocare l’immagine al centro della riflessione sul Tempo”. Era proprio ciò che succedeva nelle Wunderkammer prima che la Scienza e la Storia dell’arte non rivendicassero il loro diritto accademico e professionale a un Ordine, dal sapore positivistico o idealistico.
Nelle due mostre curate da Didi-Huberman (Atlas. ¿Cómo llevar el mundo a cuestas? al Reina Sofía di Madrid, poi allo ZKM di Karlsruhe e ad Amburgo nel 2011, e Histoire de fantômes pour grandes personnes, al Fresnoy di Tourcoing, a fine 2012) si insiste su due temi-figure correlati: il montaggio e l’atlante. Il montaggio dà accesso a una “conoscenza dialettica della cultura occidentale”, a una riscrittura – se non a una più ambiziosa riattivazione – della modernità; si tratta insomma di una strategia non solo espositiva o estetica ma anche epistemologica. L’atlante è invece una “forma visiva del sapere” alternativa all’archivio.
La produzione dell’arte contemporanea si è trovata ad andare in quella direzione, senza nemmeno essere consapevole della portata teorica di una ricerca che produceva Camere delle meraviglie, andando contro ai dettami di un Realismo, reso insostenibile e mandato in frantumi dalle Avanguardie. Facciamo soltanto un esempio di uno straordinario artista (anche nel suo caso il termine è inadeguato, e forse gli si attaglierebbe meglio la definizione di “poetico bricoleur” o “restauratore della memoria con racconti in magiche scatole): Joseph Cornell (1903-1972). La sua arte è il frutto anzitutto dei suoi lavori giovanili.
A New York, Cornell lavorò inizialmente negli uffici di una fabbrica di tessuti e poi, dal 1921, passò a fare, per un decennio, il venditore porta a porta. È quest’impiego a far nascere in lui l’interesse per il collezionismo: con la vendita porta a porta egli ha infatti l’opportunità di girovagare per la città ed inizia così a recuperare oggetti di qualsiasi tipo, da dischi a copie di vecchi film a lettere e riviste. Le sue “scatole ombra” (shadow boxes) sono composte da una scatola di legno, per l’appunto, chiusa da un vetro all’interno della quale venivano assemblate le stesse “reliquie” facenti parte della sua mastodontica collezione personale. La città per lui aveva un numero infinito di oggetti interessanti in un numero infinito di luoghi, il suo compito era quello di creare dei legami. Il suo lavoro, come lui stesso lo definì, “è solo la conseguenza naturale del mio amore per la città”. Partendo dagli oggetti trovati per strada, o con pezzi di vecchie pellicole, Cornell riorganizza il mondo e costruisce delle immagini di una nuova memoria, poetica e malinconica, ma ricca di suggestioni e meraviglie. Per questo può essere preso ad esempio per le ultime tendenze dell’arte contemporanea.
Il “materiale” e le “scatole” di Cornell fanno venire in mente le vecchie e povere valigie appartenute ai pazienti del Willard Asylum for the Insane di New York, fotografate da Jon Crispin: quattrocento valigie rinvenute nella soffitta del manicomio nel 1995 e che risalgono al periodo tra il 1910 e il 1960. Molti pazienti che furono internati con i pochi effetti personali morirono lì e furono cremati. Di loro rimase solo un numero e la valigia. Quelle valigie contengono una memoria declinata attraverso gli oggetti più disparati: guardate oggi sembrano delle perfette camere delle meraviglie portatili.
Anche al punto di vista curatoriale, a un certo punto, ci si è accorti che le mostre dovevano diventare sempre di più una sorta di Camere delle meraviglie, dove il “curator” organizza una narrazione con un percorso che, inevitabilmente, deve rompere con gli steccati teorici e disciplinari, come fanno molti “artisti” da parecchi anni (da Marcel Duchamp in poi, se si vuol proprio individuare un punto chiaro di svolta). Colui che lo ha capito per primo è stato uno svizzero, Harald Szeemann (1933-2005), che, dopo una breve esperienza nel teatro contemporaneo, si dedicò all’arte. Negli anni Sessanta divenne direttore della Kunsthalle di Berna, dove realizzò alcune mostre fondamentali: tra le quali When Attitudes Become Form (1969), che introdusse nuovi linguaggi e modi di intendere arte, grazie anche alla partecipazione di artisti come Joseph Beuys, Franz Gertsch, Richard Serra, Mimmo Paladino, Jörg Immendorff, Gian Ruggero Manzoni, Markus Lüpertz e Dieter Roth. Szeemann in seguito si dimise dalla Kunsthalle e lavorò come “curatore indipendente”: un organizzatore di mostre slegato dalle istituzioni museali. Nel 1972 viene chiamato a dirigere Documenta 5 a Kassel e nel 1978 cura una mostra sul Monte Verità, la comunità artistica fondata agli inizi del secolo sulle prealpi locarnesi. Nel 1980 inventa, con Achille Bonito Oliva, la sezione “Aperto” alla Biennale di Venezia. Nel 1999 viene nominato direttore artistico della stessa Biennale, carica che ricoprirà anche nel 2001.
Negli ultimi anni della sua carriera avvia un ciclo di mostre a sfondo geografico, come Blüt & Honig (Vienna, 2003), El Viajo Real (New York, 2004) e Belgique Visionnaire (Bruxelles, 2005). Il collezionista belga Axel Vervoordt sarà il più interessante continuatore delle intuizioni di Szeemann, e lo farà proprio a Venezia dove si stabilisce nel 2007. Assieme alla moglie May, ha creato a Palazzo Alverà, sul Canal Grande, una dimora affascinante, una estesa Wunderkammer che è la perfetta incarnazione della sua estetica, dove nuovo e antico si combinano senza strappi. A Palazzo Fortuny (la ex dimora del raffinato creatore di tessuti e collezionista Mariano Fortuny (1871-1949), Vervoordt ha organizzato alcune mostre che hanno reso visibile al grande pubblico l’efficacia del connubio tra oggetti e opere di epoche diverse, un “palazzo delle meraviglie”: Artetempo (2007); Tra (2011); Tàpies (2013).
La stessa modalità di esposizione, con grande attenzione agli aspetti scenografici, è stata messa in opera negli ultimi anni anche dal Museo di Etnografia e Antropologia del Quai Branly a Parigi. Esemplare è stata la mostra Les Maîtres du désordre (11 aprile – 29 giugno 2012) curata da Jean de Loisy con Sandra Adam-Couralet, Nanette Jacomijn Snoep, e la consulenza Bertrand Hell, professore di Etnologia all’Université de Franche-Comté. Articolato in tre grandi sezioni (L’ordine imperfetto; La maestra del disordine; La catarsi) l’esposizione analizza la nozione di disordine attraverso le differenti modalità di negoziazione messe in atto per contenerle. Accanto a oggetti archeologici ed etnografici, a documenti filmati di performances di Josef Beyos, c’erano opere di artisti contemporanei come Thomas Hirschhorn, Anne Charlotte Finel, Annette Messager, Jean-Michel Alberola.
La Biennale Arte di Venezia 2013 (Palazzo enciclopedico, a cura di Massimiliano Gioni), ha rappresentato il tentativo, per certi versi anche discutibile ma molto apprezzato, di fare il punto sullo stato dell’arte e capire dove si sta andando. La Biennale ha messo in mostra molte opere, di epoche e latitudini differenti, prodotte da artisti “non professionali” (folli, geni solitari, dilettanti, persone diversamente abili…). In questo modo si è presentata come Arte, oggetti e manifestazioni che fino a pochi decenni fa erano considerati dominio dell’etnografia, del teatro e del cinema, della psichiatria e della scienza. Una mostra che è risultata una sorta di Camera delle meraviglie.