La lezione dei greci
I greci moderni, soprattutto le classi dirigenti greche, hanno spesso vissuto del loro passato come se fosse tuttora in corso, quasi che solo loro ne fossero gli eredi diretti, e soprattutto come se questo li autorizzasse a un’autoindulgenza pericolosa che poi ha l’effetto altrettanto negativo di fare di loro, agli occhi di tutti, dei semplici parenti poveri, accentuando in modo penoso il contrasto tra il passato e il presente. Il che autorizza gli altri europei a disprezzare i greci di adesso come se fossero tutti nient’altro che dei parassiti e, peggio ancora, ladruncoli abili solo a sfilarti il portafoglio mentre ti additano il Partenone.
Ma oggi dalla bella Grecia ci vengono alcune lezioni che bisognerebbe apprezzare di più e valorizzare.
Anzitutto, la Grecia ha dimostrato di saper andare oltre un patriottismo formalistico e deleterio. Pochi giorni fa è nata, dopo polemiche e conflitti durati ventisette anni, la Repubblica della Macedonia del Nord. Skopje non è più la capitale di uno stato chiamato come un detersivo: Fyrom (Formal Yugoslav Republic of Macedonia). L’accordo (ratificato dal Parlamento di Atene con 153 voti a favore e 147 contrari) è frutto di un difficile compromesso diplomatico tra il primo ministro greco Alexis Tsipras e il suo omologo macedone Zoran Zaev. Il governo di Skopje ne ha un evidente guadagno: l’accordo sul nome della stato era la condizione per l’inizio di un cammino che dovrebbe portare, nel 2025, la nazione macedone nella Ue e nella NATO. Per il governo di Atene invece si tratta della rinuncia al “monopolio” sul nome e sulla tradizione della Macedonia. Per questo ci sono state forti manifestazioni nazionaliste: il 70% dei greci è contrario all’accordo.
Tsipras, che è anche leader della Coalizione della Sinistra Radicale sinistra (SYRIZA), ha anteposto ciò che pensava fosse giusto fare ai propri interessi elettorali. E questa è la seconda lezione: se si pensa che una cosa vada fatta per il bene del proprio paese, la si fa anche contro i sondaggi e il rischio di perdere le elezioni successive (che si terranno in autunno). Oggi i sondaggi dicono che SYRIZA, con questo “tradimento” della Macedonia, è dieci punti sotto il partito di destra, Nuova Democrazia (ND), che promette, in caso di vittoria, di bloccare il processo di integrazione europea di Skopje.
La Grecia ha dimostrato di essere più europea di molti altri paesi che, ormai indegnamente, ne fanno parte. Il presidente del del Consiglio Europea, Donald Tusk, ha così commentato l’accordo su Twitter: “Hanno avuto immaginazione, hanno rischiato, erano pronti a sacrificare i propri interessi per il bene superiore. Zora, Alexis, ben fatto! Missione impossibile compiuta”.
Tsipras e il suo partito, che cinque anni fa si erano opposti strenuamente (anche con alcune buone ragioni) ai dettami della Trojka, minacciando addirittura di abbandonare l’Euro e tornare alla Dracma, hanno pragmaticamente seguito, a partire dall’autunno 2015, forti di un inatteso successo della coalizione elettorale (145 seggi su 300 al quale si sono aggiunti i 10 seggi del partito nazionalista Greci indipendenti di Panos Kammenos), le indicazioni per diminuire il proprio debito: il paese è stato sottoposto a una cura durissima e le classi più povere hanno dovuto sopportare grandi disagi, ma ora la situazione economica è migliorata e il paese ricomincia a respirare. Se si fosse imboccata la via demagogica indicata dall’allora Ministro delle Finanze, Gianīs Varoufakīs, il consenso popolare immediato sarebbe stato certamente maggiore, ma la Grecia sarebbe stata in breve travolta, economicamente e politicamente. Anche in questo caso Tsipras ha scelto responsabilmente quello che gli pareva inevitabile, rimanendo in Europa e cercando il più possibile di attenuare le sofferenze della popolazione (e non sempre riuscendoci: ma è facile giudicare dal di fuori!). Il bravo politico va avanti per la sua strada: guarda al futuro e non cerca il facile ed effimero consenso immediato.
Nel momento in cui il populismo centro-nordico trionfa, il pericolo di un simmetrico populismo meridionale (vittimistico e parassitario) era, ed ancora è, sempre incombente. Sarebbe sbagliato, per paura di caderci, di non cercare di costruire tra i Paesi del Sud Europa una solidarietà e una sinergia – da non basare certo sull’autoassoluzione dei pesanti vizi storici (alcuni dei quali risalgono davvero alla tanto idealizzata Epoca classica dalla quale si tende a estrarre solo gli aspetti più nobili!) – ma sul riconoscimento di una realtà economico sociale diversa e sulla valorizzazione delle differenze nell’ambito di un’unità europea tutta da ricostruire.