Praga: una storia dimenticata
In una delle opere più profonde di Milan Kundera, Il libro del riso e dell’oblio (1978), c’è un racconto (La madre) che narra della mamma del protagonista che aveva invitato per il 21 agosto 1968 un amico farmacista a raccogliere le pere nel suo giardino. A causa de «l’ingresso dei carri armati di alcuni paesi stranieri» in Cecoslovacchia, il farmacista non si fece vivo, e nemmeno nei giorni successivi per scusarsi. La donna ci rimase malissimo e non perdonò più l’amico. Il figlio e la nuora furono sorpresi e indignati per tanto egoismo e tanta incomprensione degli eventi storici. A distanza di molti anni però, sopiti i rancori, attendendo la madre, il figlio riflette su quell’episodio. Le conclusioni alle quali giunge sono un po’ diverse da quelle del passato. Tutto sommato non gli appare così sbagliata la prospettiva esistenziale della madre che «in primo piano aveva una grossa pera e da qualche parte, lontano, sullo sfondo, un carro armato non più grosso di una coccinella destinata a volarsene via da un momento all’altro. (…) Il carro armato è perituro e la pera è eterna…»
In questi giorni si ricorda il cinquantesimo anniversario dell’invasione della Cecoslovacchia da parte dei carri armati del Patto di Varsavia, e la conseguente fine della cosidetta “Primavera di Praga”. Si ricorda ma già si tende a dimenticare. L’attuale Presidente della Repubblica cèca, Miloš Zeman, antieuropeo e fautore di un avvicinamento alla Russia di Putin, non è stato presente alle celebrazioni.
«La lotta dell’uomo contro il potere è lotta della memoria contro l’oblio» ha scritto Kundera. Gli individui si agitano nella propria vita quotidiana, e alcuni lottano proprio per uscire da quella cappa di anonimato che costituisce uno degli elementi fondamentali del mantenimento, da parte del Potere, di un consenso passivo della popolazione. Per un paradosso, «è negli scaffali degli archivi della polizia la nostra immortalità». In quegli scaffali si possono rinvenire storie dimenticate di persone che allora si opposero, pagando un caro prezzo, alla “normalizzazione”, al “ristabilimento dell’ordine” di Gustàv Husàk e degli altri dirigenti imposti dai sovietici.
Tra gli “eroi dimenticati” c’è anche un medico dal faccione bonario, un comunista con una vita avventurosa a giro per il mondo, che fu il più coerente protagonista della “Primavera di Praga”: Francišek Kriegel (1908-1979).
Nel 2014, la giunta del municipio di Praga 2 ha rifiutato di concedergli la cittadinanza onoraria (proposta dal consigliere comunale dei Verdi Michal Uhl, figlio degli storici dissidenti Petr Uhl e Anna Šabatová). La motivazione del voto contrario dei rappresentanti dei partiti conservatori Top 09 e Ods fu che “che era stato un comunista”.
Frantisek Kriegel era nato a Stanisławów (oggi Ivano-Frankivsk, in Ucraina), nella Galizia orientale, che apparteneva all’impero Austro-Ungarico, da una famiglia di commercianti ebrei. La sua gioventù fu segnata dalla morte del padre, quando Kriegel aveva appena dieci anni, che gettò la famiglia in una difficile situazione economica e lo costrinse a iniziare subito a lavorare, per aiutare la madre e pagarsi gli studi. Non potendosi iscrivere alla facoltà di Medicina nella vicina Università di Leopoli, a causa del “numero chiuso per gli ebrei”, decise di emigrare: suo nonno e sua madre risparmiarono 500 corone e gli pagarono il viaggio a Praga. Questa somma però non era sufficiente a pagare gli studi di medicina all’Università Carolina, quindi Kriegel fece ogni tipo di lavoro: calzolaio, manovale, venditore di hot-dog negli stadi. Sua moglie ha raccontato che non ebbe molto successo in quest’ultimo lavoro, perché la sua passione per il calcio lo distraeva e invece di vendere preferiva sedersi a guardare la partita. La povertà e l’antisemitismo lo avvicinarono al Partito comunista cecoslovacco (KSČ). Nel 1934 si laureò in Medicina e, nel dicembre del 1936, andò a combattere in Spagna con le Brigate Internazionali. Dopo la sconfitta dei repubblicani si rifugiò in Francia dove venne internato nel Campo di Gurs, ai piedi dei Pirenei.
Nel 1939 aderì alla Croce rossa internazionale e fu inviato, con la Croce Rossa norvegese, in Cina in soccorso delle popolazioni colpite dall’occupazione nipponica. Verso la fine della guerra lavorò come dirigente medico aggregato a reparti cinesi e americani in India e Birmania. Tornato in Cecoslovacchia nel novembre 1945 riprese la professione di medico mettendo a frutto le sue esperienze: parlava, oltre al cèco, il polacco, il tedesco, l’inglese, il francese e il cinese. Prese subito parte attivamente alla lotta politica, come membro del Comitato regionale del Partito Comunista di Praga, coerentemente con gli ideali antifascisti e socialisti che lo avevano sostenuto ed erano assai diffusi tra i giovani cecoslovacchi dopo la conclusione della Seconda guerra Mondiale. La sua partecipazione al colpo di stato comunista del febbraio 1948, come commissario politico delle Milizie popolari, è la cosa che oggi gli viene rimproverata (ma, ha scritto Michael Uhl: “Le fonti storiche documentano che la condotta di Kriegel nel periodo successivo al febbraio 1948 non portò danni a nessuno”). Fu nominato Sottosegretario alla Sanità nel 1949, ma già l’anno successivo fu colpito dalla campagna stalinista contro coloro che avevano partecipato alle Brigate internazionali e gli ebrei, che sfociarono drammaticamente nel Processo Slánský e nelle vaste epurazioni descritte efficacemente nel romanzo La confessione (1968), dell’ex comunista cecoslovacco Artur London (1915-1986).
Soltanto nel 1957 Kriegel poté riprendere la sua carriera medica e divenne Primario nella Clinica Vinohrady di Praga. Ma era evidentemente un tipo inquieto e avventuroso: nel 1960 si trasferì a Cuba come consigliere del governo castrista per l’organizzazione del sistema sanitario. Al ritorno a Praga, nel 1962, Krigiel rifiutò il posto dirigenziale nel Partito (soltanto nel 1966 antrò a far parte del Comitato Centrale), ma preferì farsi eleggere, nel 1964, all’Assemblea Nazionale. Dal 1966 al 1969, contemporaneamente al suo lavoro di dirigente sanitario (nella Clinica Universitaria Thomayer di Praga), continuò la battaglia contro l’ala stalinista del Partito. Con l’affermarsi dei riformatori fu nominato membro del Comitato Centrale del Fronte Nazionale (la coalizione del Partito Comunista e dei suoi partiti satelliti) e membro del Presidium del Comitato Centrale del PCC. Fu tra i fautori della nomina, nel gennaio 1968, dello slovacco Alexander Dubček a Primo segretario del Comitato Centrale.
Dopo l’invasione della Cecoslovacchia, il 21 agosto 1968, venne arrestato dal KGB, con la collaborazione della polizia segreta cecoslovacca (STB), e deportato in aereo a Mosca assieme ad altri sei altri dirigenti (Alexander Dubček, Oldřich Černík, Josef Smrkovský, Josef Špaček, Bohumil Šimon). In Russia vennero tenuti isolati e sottomessi ad un’enorme pressione affinché approvassero l’invasione e firmassero un documento noto come Protocollo di Mosca, che autorizzava l’esercito russo a stabilirsi nel paese e revocava tutte quelle riforme liberali che erano state emesse durante la Primavera di Praga. Kriegel si rifiutò di partecipare ai “negoziati” con i sovietici. Alla fine, tutti i 26 membri del governo cecoslovacco firmarono l’umiliante Protocollo di Mosca. Tutti tranne uno: František Kriegel.
Dopo molti giorni di prigionia in condizioni estreme fu condotto al Cremlino. Lo insultarono e lo offesero in quanto ebreo invitandolo nuovamente a firmare il documento, ma lui rispose: “potete uccidermi o deportarmi in Siberia perché io non firmerò l’accordo”. Il segretario del PCUS, Leonìd Il’ìč Brèžnev, furente, cercò di trattenerlo in Russia, ma il timore che Kriegel potesse trasformarsi in un martire sconsigliò di farlo rimanere a Mosca e così i russi lo riportarono a Praga.
Kriegel, che aveva salvato l’onore della Cecoslovacchia, venne cacciato da tutte le cariche politiche e perse il lavoro, come tutti gli altri dirigenti che si erano piegati al diktat di Mosca. Soltanto Dubček mantenne la sua carica, ma, nella primavera successiva, a causa dei suoi tentennamenti di fronte alle proteste anti-sovietiche, venne rimosso dal suo incarico e, dopo eser stato esiliato a fare, per un anno, l’ambasciatore in Turchia, venne espulso dal PCC nel 1970 e tornò in Slovacchia, dove trovò impiego come manovale in un’azienda forestale. Gli uomini della STB perseguitarono invece sistematicamente Kriegel: irrompendo in casa sua e aggredendo la moglie; tenedogli il telefono sotto controllo; mandandogli lettere nelle quali lo si accusava di attività sioniste; facendolo chiamare dalle imprese funebri che gli dicevano di aver pronta una bara perfetta per le sue dimensioni…
Nel gennaio del 1977 František Kriegel organizzò, con altri intellettuali, artisti e politici cecoslovacchi, la Carta 77 (che inizialmente venne firmata da 247 persone): c’è una bella bella foto che ritrae un pensieroso Kriegel accanto a Havel, capellone e sorridente, al tavolo della riunione. Nella Charta (tra i firmatari c’era anche il grande filosofo Jan Patočka che morì, il 13 dicembre, durante un violento interrogatorio della polizia) si denunciavano i metodi dello stato autoritario e si invitava a lottare per portare la democrazia in Cecoslovacchia. Molti di questi intellettuali furono imprigionati e cacciati dal proprio lavoro (Kriegel lo aveva già perso nel 1969…).
Alla fine del 1979 Kriegel ebbe un attacco di cuore. Fu portato in ospedale sotto scorta degli uomini della polizia segreta, che rimasero a piantonare la porta della stava dove era ricoverato. Kriegel decedette il 3 dicembre. Il governo, temendo che la sua morte potesse provocare manifestazioni (come era accaduto dopo il suicido dello studente di filosofia Jan Palach, nel gennaio del 1969), non diffuse la notizia, proibì qualsiasi tipo di funerale e fece cremare il suo corpo senza nessuna cerimonia.