Il servizio militare
Tutto cominciò in uno di quei periodi opachi nei quali ci si accascia su un divano, con nessuna idea in testa, assorti e storditi. Ascoltavo le rane, signore incontrastate delle gore sassose del Mugnone, gracidare incessantemente quelli che pensavo fossero dei consigli diretti a me, o una beffarda serenata. Mancavano pochi mesi alla maturità e cercavo di comprendere la Teoria della relatività. Mi arrivò la convocazione per la visita militare. Così, una settimana dopo, mi ritrovai di primo mattino, con una cinquantina di ragazzi frastornati, dentro una vecchia caserma, ricavata da un edificio mediceo (l’ex Granaio dell’Abbondanza), sulle rive dell’Arno.
All’inizio ci fecero accomodare in vecchi banchetti da scuola elementare per fare il test attitudinale: quadrati e rettangoli da confrontare, cerchi da ordinare, elenchi decrescenti da correggere, sinonimi e contrari, vero-falso… C’era gente che impegnava seriamente tutta la propria intelligenza: il mio vicino stava ripiegato sul foglio, tormentando la sua cavità nasale con la punta della penna. Per la prima volta in vita mia scoprii di avere dei coetanei che sapevano a mala pena leggere e scrivere. Poi ci spinsero, completamente nudi come anime dell’Inferno, in un gelido e puzzolente stanzone. A un certo punto della visita anatomica, i medici cacciarono un grido e gli inservienti corsero a fotografare un ragazzetto barese mingherlino. Aveva tre palle. L’ufficiale medico, con voce solenne ma rotta dall’emozione, ci spiegò che era «un caso rarissimo di poliorchidismo, come quello del grande condottiero italico Bartolomeo Colleoni».
L’ultimo atto fu il colloquio individuale con il selezionatore: un tipo alla mano e il pizzetto ben curato. Mi fece, mellifluo, i complimenti per l’esito del test e chiese: «Ovviamente lei non vorrà partire subito, dovremo attenderla fino ai ventisei anni?». Confermai che era mia intenzione frequentare l’Università. Volle sapere che cosa avrei studiato. Gli risposi, ahimè, la prima cosa che mi passò per la mente: «Psichiatria o Fisica nucleare». Prese nota.
Negli anni successivi feci tutt’altre cose e il tempo volò abbastanza spensieratamente. Il servizio militare mi tornava in mente soltanto una volta all’anno quando dovevo produrre la documentazione di aver passato almeno un esame e richiedere un ulteriore rinvio. Appena compiuto il ventiseiesimo anno ricevetti l’improcrastinabile chiamata. Passai a prendere i miei fogli al Distretto Militare dove manifestarono il loro baldanzoso stupore per la mia destinazione: l’assegnazione prevista era assai oscura. Di più non vollero dirmi. A ogni mia ulteriore domanda, tacevano e alzavano gli occhi al cielo.
Non stetti troppo ad angosciarmi. Avevo altro per la testa e, soprattutto, ero preoccupato di come avrei fatto ad annodarmi la cravatta. Manifestai questo cruccio a mio padre che dimostrò, nell’occasione, un inaspettato senso pratico. Mi portò in via Ghibellina dove c’era un piccolo negozio di divise, assurto suo malgrado agli onori della cronaca perché ci facevano la spesa anche le Brigate Rosse. Comprammo dieci tristi cravatte grigioverdi e passammo poi la serata ad annodarle. Mi insegnò ad allentare il nodo scorsoio e a sfilare la cravatta dalla testa senza scioglierla. Con questo bagaglio di cappi laschi in valigia, qualche libro e un maglione, salutai la mamma e la morosa e partii in piena notte.
In treno, sfinito dall’emozione, dormii tutto il tempo. Giunsi così, all’improvviso, nel mio impensato mondo a parte: la cittadina, alle prime luci del giorno, mi apparve come in una bolla di vetro, offuscata da un’abbondante nevicata siberiana.
Appena entrati in caserma, ci adunarono nel cortile, ci riscossero a male parole, ci rasarono e infagottarono in divise fuori misura. Le camerate erano delle ghiacciaie: non avevano i vetri e il vento mulinava liberamente sollevando le coperte dei letti a castello come fantasmi inquieti. Mi assegnarono una branda vicino alla porta metallica, ammaccata e grigia, dove qualcuno aveva scritto: «Morirete tutti». Il tenentino isterico e ispido, che si occupava di noi, non mancò di informarci, ridacchiando, che proprio la settimana prima un soldato si era sparato in bocca durante il turno di guardia notturna: ultimo di una serie di «incidenti-suicidi» dei quali gli ufficiali della caserma parevano andare particolarmente fieri.
Marciavamo tutto il giorno: su e giù per lo sconnesso Campo di Marte, come animali in gabbia. Mi ci vollero pochi giorni per scoprire che si trattava di una «caserma particolare». La gran parte delle reclute erano ragazzini con piccoli precedenti penali e un tasso di aggressività esagerato. Il resto invece erano tutti «ventiseienni», con laurea, e, soprattutto, precedenti di militanza politica di sinistra. Questo sapiente mix rendeva la vita complicata e obbligava a rintanarsi tra i propri «simili». Gli ufficiali aizzavano i «bifolchi» contro noi «signorini, professorini, comunisti», detti anche, per brevità, «turisti». Nella prima settimana, mi scassinarono l’armadietto, bruciarono i libri, condirono il caffè con una quantità spropositata di gocce lassative da farmi finire in infermeria.
Una notte, mentre dormivamo infreddoliti nonostante fossimo vestiti e infagottati nei cappotti, si spalancò la porta e nella luce del corridoio, come in un film di extraterrestri, comparvero due militari trascinando un ragazzetto riluttante che gridava in una lingua incomprensibile. Lo schiaffarono sulla branda sotto di me e se ne andarono. Pianse tutta la notte, ululando come un lupo. Antonio era un pastore sardo della Barbagia. Era analfabeta e non sapeva bene dove lo avessero portato. La burocrazia militare, non essendo riuscita a fargli pervenire la cartolina e non vedendolo arrivare, gli aveva mandato i carabinieri che lo avevano prelevato senza tanti complimenti. Era riuscito a portar con sé soltanto una radiolina rossa, che aveva costituito il suo unico contatto col mondo quando passava lunghi periodi in alpeggio, assieme alle pecore. Probabilmente grazie alla radio, quando voleva, parlava un buon italiano. Si attaccò a me come a una scialuppa di salvataggio e prese a starmi vicino come una piccola ombra. La cosa non sfuggì agli ufficiali. Il tenente mi propose di alfabetizzarlo.
Così, al pomeriggio, mentre gli altri mordevano la polvere marciando, nei locali adiacenti le furerie, insegnavo l’italiano al mio volenteroso discepolo. Gli dovevo dare anche lezioni di vita pratica (a che serve un assegno; cos’è un kalashnikov; come funziona il parlamento…) che lui ricambiava con pillole di saggezza vissuta, ammantata di un poetico panteismo pastorale. Non usciva mai dalla caserma. Una sera ci vide sfrecciare tutti agghindati in libera uscita. Ci chiese timidamente dove andassimo. Lo invitammo a partire con noi alla volta della grande città.
Parve ingiusto verso di lui cambiar programma. Oltretutto era anche la prima volta che andava al cinema: un film valeva l’altro! Dovette sorbirsi due ore di contorsioni di due donne dentro una stanza, in tedesco con sottotitoli in italiano. Si addormentò quasi subito e russò scompostamente fino alla fine, quando si risvegliò raggiante e ci ringraziò per averlo fatto così divertire.
Giunse infine il giorno della «destinazione definitiva» che ci fu comunicata soltanto all’ultimo momento (nemmeno si trattasse di una missione segreta!). Con sorpresa scoprii che dovevo andare a svolgere «incarichi speciali» nell’Ospedale militare di una grande città. Antonio fu invece spedito come telegrafista in una postazione radar di una piccola località del sud. Non mi risulta che vi fece gravi danni, ma non ho mai saputo più niente di lui. Io arrivai a destinazione, nel primo pomeriggio, su un camion scassato, assieme a un gruppo di medici, paramedici e scienziati. Ci fecero schierare nel cortiletto della zona servizi dell’Ospedale e il comandante iniziò uno strano appello, chiamando soltanto le funzioni: il medico internista, il radiologo, il biologo, l’infermiere ortopedico ecc. Quando nominò lo psichiatra nessuno si mosse. Scartabellò nervosamente gli elenchi che stringeva in mano e gridò il mio nome. Feci meccanicamente un passo in avanti e mi presentai. Quello, tra gli sghignazzi della truppa, mi apostrofò: «Tu, oltre che psichiatra, sei anche sordo?». Si beccò la risposta che meritava: «Non sono psichiatra, ma laureato in filosofia». Un lungo silenzio. Poi dette in escandescenze, bestemmiò tutti i santi del cielo, sostenne che ero un lavativo raccomandato e minacciò di farmi pentire di esser nato. Gli feci umilmente notare che se fossi stato raccomandato mi sarei fatto mandare all’Ospedale militare della mia città e non in quel posto triste e nebbioso. Mi spedì in camerata e per alcuni giorni mi ignorarono. Stavo sdraiato in panciolle tutto il giorno a giocare da solo a scacchi e a leggere le memorie di Einstein, e quelle di Adriano. La settimana dopo mi mandò a chiamare e, con fare gentile, iniziò a riflettere ad alta voce: «Mi risulta dai programmi che, studiando filosofia, si danno anche degli esami di psicologia…». In effetti uno, il più facile (su un paio di testi di Freud), e senza obbligo di frequenza, lo avevo fatto. Gli si illuminarono gli occhi: «E allora, vede che lei ha tutti i numeri per essere un ottimo psichiatra militare! Si presenti immediatamente in reparto che l’aspettano».
Così fui ingaggiato e iniziai a lavorare nella piccola casetta di mattoni gialli in fondo al parco. Sembrava di stare in una clinica dell’Ottocento: c’erano due celle imbottite con materassi, stanze bianchissime con letti in ghisa e cinghie di contenzione, stampe ingiallite alle pareti con vecchie immagini del cervello. Signori del luogo erano un panciutissimo gatto bianco e nero, chiamato Basaglia, e il suo padrone: un attempato infermiere tracagnotto con la testa a forma di pera rovesciata. Non dovevamo far praticamente nulla se non schedare e archiviare e, nei casi gravi, chiamare subito lo psichiatra dell’Ospedale civile lì vicino. Avevamo in dotazione, in un armadietto arrugginito chiuso da un improbabile lucchetto, delle siringhe con un tranquillante verdognolo che avrebbe steso un elefante. Il problema, già abbondantemente sviscerato da Pirandello nell’ “Enrico IV”, era che praticamente nessuno dei nostri pazienti era pazzo. Ma chi fa finta di essere pazzo non è un po’ pazzo?! O è il contrario? Comunque: tutti fingevano nella speranza di esser riformati. Dovetti constatare amaramente che coloro che non sono pazzi, hanno della follia un’immagine soprattutto mutuata dal cinema: non pensano che la malattia mentale possa manifestarsi in un quieto mutismo o una tranquilla e depressa apatia. Sono invece convinti che il pazzo debba sputare, mordere, agitarsi, spaccar tutto. Ogni giorno dovevamo arginare queste recite scalmanate. I «soldati matti» si credevano più furbi di noi, ignorando che il Codice militare, risalente all’epoca fascista, contemplava ancora l’esonero per pazzia inserendola sotto una stessa categoria con l’omosessualità e la narcomania. Il che significava essere marchiati a vita nella fedina penale. Ma ogni mezzo pareva buono pur di potersene tornare a casa.
In un caldo pomeriggio di maggio, scaricarono da un elicottero due alpini legati alle barelle come due salami. Nonostante questo, si agitavano forsennatamente e, non appena gli furono tolti i fazzoletti che chiudevano le loro bocche, proruppero in un urlo ininterrotto e disperato. Il medico civile praticò loro un punturone per placarli. Rispettando il protocollo, li denudammo e li sistemammo così nelle due celle imbottite. Ogni quarto d’ora li osservavamo dagli spioncini: verso la mezzanotte ebbero un contemporaneo breve risveglio. Correvano starnazzando da una parte all’altra delle celle gridando frasi sconnesse. Poi si accucciarono a terra, ripresero sonno e nel reparto tornò il silenzio. Al mattino li trovammo morti. Nel giro di pochi minuti piovvero lì un nugolo di carabinieri, ufficiali degli alpini, dirigenti dell’Ospedale, medici con e senza camice, funzionari della Questura. La zona fu isolata con nastri rosso-bianchi che dondolavano al vento.
Dopo due giorni giunse il responso dell’autopsia per stabilire le cause della morte: meningite fulminante. In realtà, si venne poi a sapere in tutta segretezza che si trattava di una degenerazione dei tessuti del cervello causata da un prolungato uso di esplosivi radioattivi.
Allora fummo radunati in cortile, con la solennità delle grandi occasioni, e ci comunicarono che saremmo rimasti in quarantena per due settimane: divieto assoluto di uscire dal perimetro della zona servizi. Un medico civile aggiunse alcune raccomandazioni di carattere igienico (lavarsi bene i denti, non mettersi le dita in bocca, tenersi lontani dai propri genitali, ecc.) e si congedò con un’agghiacciante richiesta: «Chiunque avvertisse un fastidioso dolorino dietro la nuca, si rivolga subito al medico di turno». Non avevo mai sofferto di mal di testa in vita mia: la nuca iniziò a farmi molto male. Soprattutto di notte, quando mi pareva che la radioattività mi investisse come una tromba d’aria, coprendomi di polvere.
La goccia che fece traboccare il vaso cadde il mese successivo. Durante una notte di luna piena, uno dei nostri pazzerelli in osservazione fuggì dal reparto e si arrampicò su uno dei duecentottantaquattro spellati platani che costellavano il parco interno dell’Ospedale. Anche in quel caso l’allarme scattò rapidissimo: tutti i soldati furono costretti a trascinare i propri materassi sotto il tronco, per «attutire le conseguenze di un’eventuale caduta». Il fuggitivo, lo ricordo benissimo, era un bersagliere allampanato e rosso di capelli. Illuminato a giorno dai fari, si dondolava beffardamente su un ramo e gridava di voler tornare subito a casa sua, altrimenti… Il generale, dalla cui divisa faceva capolino un vistoso pigiama a righe, evidentemente desideroso di tornare al più presto a letto, gli dette col megafono la sua parola d’onore che, se fosse subito disceso, lo avrebbe accontentato. Io, che gli stavo accanto, mi permisi di sussurrargli che, se si fosse sparsa la voce che bastava montare su un albero e si veniva mandati in licenza, la notte dopo non sarebbero bastati tutti i platani del bosco. Ricevetti una robusta pacca sulla spalla, con l’esclamazione: «Soldato, vedi a che servono gli intellettuali! Hai ragione: da domani quintuplichiamo le pattuglie notturne e gli facciamo piantonare gli alberi!». La sera dopo, si aggirava nell’oscurità un nugolo di nervose e assonnate sentinelle che si erano giurate l’un l’altro di massacrarmi di botte.
Mi feci così trasferire di reparto, minacciando altrimenti di passare dall’altra parte della barricata (avevo infatti la brutta sensazione di stare veramente impazzendo). La loro benevolenza non mi portò molto lontano: fui assegnato alla palazzina limitrofa dove ci si occupava dei tossici. Se un soldato veniva scoperto con una siringa in vena, o con strane pasticche in tasca, anche a fumarsi una canna, lo arrestavano e spedivano per accertamenti in quel reparto. Se, dopo le analisi, risultava tossicodipendente, come un appestato veniva rimandato a casa sua e segnalato ai carabinieri. Io avevo il compito di istruire la pratica e spedirla al Comando militare, in copia al reparto di provenienza, e ai carabinieri. Naturalmente i veri tossici erano pochissimi. La grande maggioranza erano, come nel caso dei pazzi, ragazzi che fingevano per scampare il militare. Ma per fingere dovevano farsi, e anche con un certo metodo.
I più venivano aiutati da «amici esperti» o, ancor più spesso, da medici compiacenti. Una volta mi capitò un friulano che girava con un pigiama elegantissimo e un Rolex d’oro assai vistoso. Siccome era simpatico, gli dissi con fare complice che, per evitare un anno di militare, rischiava di compromettere il suo futuro e, per esempio, non avrebbe mai potuto insegnare né avere delle cariche pubbliche. Mi sorrise sornione: «Lavoro con mio padre che gestisce una concessionaria di macchine sportive. Ogni giorno che passo qui dentro perdiamo una marea di soldi!»…