L’obsolescenza programmata è in noi
L’obsolescenza programmata, della quale si è parlato molto in questi giorni, a proposito dei telefoni cellulari della Apple, è qualcosa che ha un significato che va assai oltre il campo della tecnologia. Ci troviamo difronte infatti a un tentativo di anticipazione del Tempo. Un meccanismo che non fa fare per intero tutto il percorso dato, ma programma, sin dall’inizio, una fine che viene prima di un esito naturale. Se naturalmente, e statisticamente, una cosa dovrebbe durare, mettiamo, dieci anni, la si dota di una debolezza che la rende obsoleta dopo sette anni di vita, non dandole il tempo di percorrer per intero il suo corso. Programmare la sua fine significa segnare uno stop che avverrà prima di quando dovrebbe finire (anche se quando questo esattamente sarà nessuno può dirlo).
Come è stato spiegato, l’inevitabile tendenza in ambito tecnologico (e non solo) a produrre dispositivi sempre più potenti, che possono gestire meglio software più complessi, ha per conseguenza che i vecchi modelli diventino inservibili. Così, per usare le funzionalità più recenti, è necessario acquistare un nuovo modello di un apparecchio. Quando un sistema operativo cambia, i modelli più vecchi non funzionano più (come accadde, nel 2103, quando Apple introdusse il sistema iOS 7). Inevitabilmente i dispositivi divengono inutilizzabili e così si è praticamente costretti ad acquistarne di nuovi e gettare i vecchi nelle discariche.
Ricordo che, circa quaranta anni fa, nel mio primo avventuroso viaggio da solo all’estero, mi ritrovai in Olanda e, annoiandomi ad Amsterdam, mi recai in autobus a Eindoven per visitare la prima grande fabbrica di lampadine, oggi museo: la “Koninklijke Philips Electronics” (Reale Philips Elettronica), fondata nel 1891 da Frederik Philips e dai suoi due figli Gerard e Anton. Mi colpì una grande statua davanti all’ingresso. Avvicinandomi pensai che fosse sicuramente quella del fondatore. Invece, mi spiegarono, che quel signore che guardava fieramente lontano era il tecnico che aveva scoperto come rendere possibile che le lampadine non fossero eterne. Grazie a questa astuzia tecnica dopo un po’ di tempo le lampadine si fulminano e si è costretti a comprarne di nuove. Così la fabbrica Philips, e tutte le altre che producevano i bulbi di luce, poterono prosperare. Durante il funzionamento della lampadina, il tungsteno sublima e il filamento diventa sempre più sottile, fino a spezzarsi (generalmente dopo circa 1000 ore di funzionamento).
Nel 1924, fu il “Cartello Phoebus” (da “Phoebus S.A. Compagnie Industrielle pour le Développement de l’Éclairage”, società registrata nel 1916 a Ginevra), lobby dei principali produttori occidentali di lampadine, che portò una standardizzazione nella produzione delle lampadine a incandescenza in commercio, al fine di limitarne la vita a circa 1.000 ore di esercizio. Il nome del cartello non era casuale: Apollo, come dio solare, portava anche il nome di Febo (colui che spende, che illumina) e percorreva il cielo su un cocchio d’oro e di gemme, trainato da quattro cavalli che emettevano fuoco dalle narici. Apollo, in quanto dio immortale, non era a tempo limitato…
Quando, negli anni Trenta, i ricercatori dell’azienda chimica DuPont riuscirono a creare il nylon (una nuova fibra sintetica molto resistente), questa fu utilizzata per creare calze da donna che si smagliavano molto più difficilmente di quelle di seta esistenti. Poiché la durata delle calze era eccessiva e dannosa per gli affari, la DuPont incaricò i propri tecnici di indebolire la fibra stessa che avevano creato. Nella bella commedia inglese, diretta da Alexander Mackendrick, Lo scandalo del vestito bianco (The Man in the White Suit, 1951), il protagonista è uno scienziato che crea uno straordinario tessuto, indistruttibile e impossibile da sporcare. Ma gli industriali per i quali lavora gli si oppongono e cercano di costringerlo a distruggere la fibra perché i vestiti impossibili da sciupare avrebbero certamente determinato il crollo dell’industria tessile…
Non soltanto gli oggetti, ma noi stessi siamo soggetti all’obsolescenza sin dal momento nel quale veniamo al mondo. Come seccamente notava Martin Heidegger, nasciamo per morire (“esserci per la morte”). Siamo stati creati “a tempo”. Non potendo e non dovendo essere eterni, minuto dopo minuto ci consumiamo e diventiamo tutti obsoleti. Non si può dire che siamo propriamente programmati: varie sono le forme e diversi i tempi della nostra obsolescenza. Ma, come gli oggetti tecnici, siamo costruiti per lasciare spazio ad altri che verranno: più giovani, più sani, più attrezzati intellettualmente.
Siamo tutti come filamenti di tungsteno. Ma se siamo così, notava il protagonista del romanzo Le straordinarie avventure di Julio Jurenito (1921), dello scrittore russo Il’ja Grigor’evič Ėrenburg (1905-1964), proprio come i filamenti di tungsteno dobbiamo fare: quando le lampadine sembrano ormai fulminate, con il filamento spezzato, scuotendole si rianimano e danno, per pochi attimi ancora, una luce così intensa come mai hanno prodotto. E anche il mio cellulare, quando sembrava ormai obsoleto e inutile, si è ripreso grazie a un simpatico cinese di ChinaTown che lo ha scosso energicamente e, con un sorriso sornione, me lo ha riconsegnato acceso e ancora funzionante per alcune settimane (anzi, meglio: in quel periodo ho ricevuto telefonate assai più belle). Forse questo è il modo di ribellarsi all’obsolescenza, per noi e per le cose: un altro scrittore russo, Lev Natanovič Lunc (spentosi nel 1924, a soli 23 anni, dopo aver scritto splendide cose), fece in tempo lasciarci un testo intitolato La rivolta delle cose, che non piacque affatto ai padroni della Rivoluzione che stava già spegnendo, tragicamente, i sogni e le speranze che aveva acceso di un mondo nuovo e non obsoleto (né tantomeno programmato e programmabile).