Il negozio di maschere cinese
Ai margini del Quartiere Cinese, a Milano, c’è una vecchia e strana cartoleria (sull’insegna sta scritto “Publimagic”), che non vende quasi più quaderni e matite, ma ogni genere di maschere e travestimenti. Mi ha sempre suscitato molta curiosità, ma anche una certa soggezione: non ho mai osato aprire quella porta e varcarne la soglia. Ho osservato spesso le sue vetrine, sbirciato l’interno tra le variopinte maschere, e poi mi son fermato sul marciapiede al lato opposto della stretta strada. Son stato là ad aspettare anche per mezz’ora, ma non ho mai visto entrare o uscire nessuno. Eppure il negozio è evidentemente aperto e funzionante. Mi sono così immaginato che si popolasse soltanto all’imbrunire o addirittura di notte. Così ci son ripassato varie volte col buio: ma era tutto spento, seppur all’interno si potevano notare alcune flebili fiammelle rosse, come fiori di loto.
Sabato pomeriggio, però, con il caldo torrido che annebbiava di umidità l’aria, mentre ci passavo lentamente davanti in bicicletta, schizzò fuori di corsa un individuo molto basso, piuttosto cicciottello, con buffe scarpe da tennis dorate. Presi istintivamente a seguirlo a una certa distanza, per non farmi notare. All’altezza di Corso Sempione si voltò di scatto: aveva il muso di un cinghiale feroce. Una
maschera perfetta, aderente come una seconda pelle. Veniva rapidamente verso di me, impossibilitato a far retromarcia con la bicicletta, muovendosi con passettini laterali, come un bizzarro passo di danza…
Il tracagnotto con la truce maschera da cinghiale mi passò accanto, sfiorandomi il braccio ed emettendo una specie di sordo rutto. Se ne tornò sui suoi passi. E io ripresi a seguirlo in bicicletta. Rientrò nel negozio sbattendo la porta a vetri. A quel punto mi feci coraggio, abbandonai incautamente la bici ed entrai anch’io. Un forte odore di formalina mista a menta mi solleticò le narici. Si vedeva poco, come attraverso una sequenza di sottilissimi veli, appesi come ragnatele tra le cataste di scatole e manichini. La luce della strada era schermata dalla cascata di maschere esposte nelle vetrine. Sbattei contro un alto frigorifero con lo sportello trasparente. Tirai la maniglia, inaspettatamente bollente, e misi il capo dentro. Sugli scaffali stavano allineati grossi cilindri di vetro con tappi di plastica arancione. Dentro vi galleggiavano, come meduse, cervelli grigiastri di considerevoli dimensioni. Mi si avvicinò discretamente una donna molto alta e sottile, infagottata in una tunica rosso ciliegia e col volto nascosto da una maschera con le sembianze di un castoro. A causa dei due prospicenti dentoni di plastica sembrava ridere di gusto, ma la sua voce rivelò una spiccata consuetudine alle sigarette funzionale a un tono piuttosto professionale. Mi porse due scatole azzurre: in una c’era una mano di donna con unghie appuntite color ciclamino, immersa in abbondante ghiaccio sintetico e fumante. Nell’altra, la maschera di un gaucho. “Merce argentina”, mi spiegò. “La mano è quella di Evita Peron. Pochi giorni dopo il funerale, di notte, violarono la sua tomba e le mozzarono le mani. Dovevano servire ad aprire una cassaforte con riconoscimento digitale, nel senso di impronte, nel caveau di una banca di Zurigo. Il gaucho invece…”.
“E il gaucio invece?” chiesi con insistenza per rompere la sua indaffarata esitazione castorina. “Il gauchillo”, precisò la signora mascherata, e riprese a raccontare con la sua allegra cantilena italiana con timbro cinese: “Gauchito Gil e San La Muerte, sono due dei più noti santi popolari argentini, non riconosciuti dalla Chiesa cattolica romana, ma venerati come tali. Gauchito Gil sarebbe nato nella zona di Mercedes, una provincia dell’Argentina, intorno al 1840 mentre la data della sua scomparsa è fissata l’8 gennaio 1878. La tradizione lo vede nei panni di un bandito misericordioso che rubava ai ricchi per donare ai poveri. Per questa ragione è diventato un simbolo mistico di coraggio. San La Muerte, rappresentato come una figura scheletrica che regge in mano una falce, raccoglie anch’esso una moltitudine di fedeli che sono soliti fare offerte in suo nome nella speranza di ottenerne il favore”. Tirò quindi fuori dalla scatola un abito rosso, accuratamente ripiegato, con dipinto su uno scheletro. “Questo quà è il costume di San La Muerte”, aggiunse, mentre me lo passavo tra le mani come se scottasse. “Ce ne ha comprato mesi fa uno il famoso fotografo Meneguzzo per il suo reportage sui gauchillos, nelle regioni di Corrientes, El Chaco, Missiones, e Buenos Aires: pellegrini, centri di preghiera, miracolati o presunti tali, gauchos a cavallo arrivati a Mercedes da ogni zona dell’Argentina per rendere omaggio ai due Gauchillos”.
Forse anche per il caldo opprimente, non riuscivo ad afferrare la connessione tra questo sgangherato negozio cinese di maschere (e probabilmente di molte altre cose ancora), e le “reliquie argentine”. La donna-castoro sembrava non badarmi più: osservava in silenzio la mia bicicletta lasciata incustodita sul marciapiede là fuori. Il tempo pareva essersi fermato. Mi ronzavano un po’ le orecchie, ma in realtà era il frigorifero a vetri con i cervelli a emettere un sottile sfrigolio elettrico. Mi guardai attorno. Sugli scaffali gialli, tra le scatole e le maschere penzoloni, c’era un topone nero, vivo, che mi fissava, oscillando il codino rosa. Più sopra, un barbagianni grigio, immobile, sembrava lì lì per perdere la pazienza… A un tratto si misero a suonare contemporaneamente una decina di sfiatati orologi a cucù. Ma, invece dell’uccellino, uscivano dalle casette traballanti scheletri di plastica muniti di falci. Cominciava ad esserci troppa morte là dentro: pensai che fosse meglio uscire velocemente, inforcare la bicicletta e pedalare il più lontano possibile da quel circo orientale di stranezze.
Il problema è che la cinese (ma era poi cinese, a parte la cantilena di elle al posto delle erre?), con la maschera da castoro sorridente, mi aveva afferrato il braccio sinistro e mi stava trascinando con forza verso il retrobottega del negozio. Il caldo era soffocante. La vista mi si appannava per le gocce di sudore della fronte che, scivolando giù, andavano a impigliarsi tra le ciglia. Il negozio di maschere si stava affollando di topi, che sbucavano in fila indiana dalla porta socchiusa in fondo. Su un lungo tavolo, laccato di rosso, comparve, come su un palcoscenico, il cinese molto basso, piuttosto cicciottello, con buffe scarpe da tennis dorate e la maschera da cinghiale, che ora stringeva in mano. Era completamente calvo e i suoi occhietti erano due impercettibili fessure. In perfetto italiano disse di essere uno spirito che girovagava per la terra, senza pace, e descrisse la sua straziante vita in quel negozio-aldilà, da quando era morto senza ricevere una degna sepoltura (lo avevano sotterrato di notte nel parco di Trenno per poter passare i suoi documenti al fratello, appena giunto illegalmente, da Guangzhou). Urlò che lo avevano avvelenato e che quello gli aveva usurpato la sua fiorente attività commerciale e, oltretutto, si strusciava continuamente addosso a sua moglie (indicò la signora alta, con la maschera da castoro, che non mi mollava la presa del braccio, quasi per tenermi fermo ad ascoltare ancora). Sembrava di assistere alla recita che il folle Amleto imbastisce per smascherare lo zio Claudio. Una “trappola per topi”, la chiama. Qui di topi ce n’erano in abbondanza, ma ero io che mi trovavo in trappola. Perché quella strana recita?
La verità di ciò che ci è più vicino si sgretola in un pulviscolo di esperienze e, in lontananza, scorgiamo la linea, miracolosamente immobile, di un mondo in conflitto fra talento e mediocrità. Tintinnò il campanellino della porta del negozio. Entrò Vincenzo Cerami, con la maschera della sua faccia bonariamente arcigna. Il corpo da agile rugbista era completamente fasciato di bianco, come piaceva a Pier Paolo. In braccio teneva una lepre. Era un fantasma, o forse un altro cinese travestito da scrittore. Come se fosse la cosa più naturale del mondo iniziò a declamare, indicando la donna con la maschera da castoro, che aveva abbandonato la presa del mio braccio: “Tu, Morena, come Ulisse fuggi proprio da ciò che stai cercando, e passi da un naufragio all’altro in un oceano di invenzioni, e di fantasmi che prendono corpo solo davanti alla vetrina a specchio di questo negozio. Ti ruotano intorno i rumori della nostra epoca, di un quartiere popoloso e sotterraneamente violento, le maldestre ambizioni di orientali allo sbando. Morena sei sola e non vuoi esserlo, e per non diventare un fantasma vai, mascherata, a caccia della vita, cambiando continuamente travestimenti, amici, animali, indirizzi, città, e lingue. Sperimenti con ostinazione l’arte della fuga: il male per te è diventato ormai un sortilegio”.
Poi, nel silenzio, fu come se un’enorme capocchia di fiammifero fosse stata sfregata sulla carta vetrata del suo volto. Prese fuoco. E immediatamente si accesero fiammelle ovunque nel negozio, e sopra le nostre teste, come in una caotica Pentecoste. Si spalancò la porta verde dalle quale uscivano i topi e un risucchio potente d’aria aspirò tutto nel suo nero inferno. Un odore insopportabile di acciughe bruciacchiate si diffuse per l’aria. Nel negozio di maschere non rimase più niente. Mentre, non tanto lontano da lì, in un garage sotterraneo di Piazza San Marco, dentro la Porsche di uno degli amici dei suoi figli, dove da tempo dimorava anche il suo gatto Ely, munito di ruote al posto delle zampe posteriori, l’anima del trapassato Achille brindava sobriamente con quelle dei suoi amici, in attesa di andare a vedere se di là è meglio. Uscii stordito dal locale ormai vuoto e non trovai più la bicicletta. Per terra, una copia della bellissma grafic novel Chinamen. Un secolo di cinesi a Milano della bella Ciaj Rocchi e del nerocappelluto Michele Demonte, pubblicata da Becco Giallo. La menzogna tripla, che inganna a morte, è quella di chi mente e inganna dicendo la verità.