Il giorno di Bloom
Oggi, 16 giugno, per gli ammiratori di James Joyce è un giorno speciale: il Bloomsday, nel quale, a Dublino, bevendo abbondanti boccali di birra, si ripercorrono i passi del protagonista dell’ Ulisse.
Il Bloomsday (in lingua irlandese: Lá Bhloom) è la rievocazione gli eventi dell’Ulisse, il romanzo più celebre di Joyce che si svolge in una sola giornata, il 16 giugno 1904 a Dublino. Il 16 giugno è una festa laica in Irlanda. Il nome “Bloomsday” deriva dal cognome del protagonista del romanzo, Leopold Bloom. Inoltre, il 16 giugno è il giorno in cui Joyce e quella che sarà la sua compagna per tutta la vita, Nora Barnacle, si dettero il primo appuntamento, una passeggiata verso il villaggio di Ringsend. La prima edizione del Bloomsday si è svolta nel 1950, in occasione del trentennale della pubblicazione dell’Ulisse, ad opera di alcuni scrittori che per celebrare tale ricorrenza ripercorsero le peregrinazioni di Leopold Bloom attraverso la città.
Nato nel 1866, Bloom è l’unico figlio di Rudolph Bloom, un ebreo ungherese nato a Szombathely (letteralmente “posto del sabato”, dalle due parole: szombat, sabato e hely, posto) con il nome di Rudolf Virág, emigrato in Irlanda (ove cambiò nome) e convertitosi al protestantesimo (in seguito suicida). Dal 1994 il Bloomsday viene celebrato anche nella città ungherese di Szombathely, che è la più antica città dell’Ungheria e con una antica e forte, come dimostra il nome, presenza ebraica. L’evento solitamente si svolge nelle vicinanze dei resti di un tempio di Iside del tempo dei romani, e la Blum-mansion, dedicata a Joyce dal 1997, al 40–41 di Fő street, proprietari ed inquilini della quale sono una famiglia di ebrei chiamati Blum. L’autore ungherese László Najmányi nel suo romanzo del 2007, The Mystery of the Blum-mansion, descrive i risultati di una sua ricerca sulle connessioni tra la famiglia Blum e James Joyce.
Ho letto la prima volta l’Ulisse di Joyce a diciott’anni, invece di preparami per la Maturità. La lettera iniziale del mio cognome era risultata ultima nel sorteggio per gli esami orali e quindi dovevo attendere la fine del mese di luglio per porre fine a quell’assurdo rito che con il passaggio all’età adulta non aveva nulla in comune. Anzi: più passavano i giorni e più mi pareva che tutto si stesse trasformando in una farsa surreale: voci incontrollate e drammatiche si susseguivano sulla severità della nostra commissione esaminatrice, che veniva dipinta come una banda di sadici assetati di sangue; molti dei miei compagni, complice anche il caldo infernale, subivano trasformazioni psicofisiche che li facevano assomigliare sempre più a isterici bambocci; madri e padri, non sapendo più a che santi votarsi, davano fondo a tutti i riti propiziatori possibili (da frequenti preghiere alla preparazione di cibi e bevande dai prestesti effetti miracolosi).
Mi aveva da poco abbandonato la fidanzata e quindi non mi importava nulla di nulla. Trascorrevo le giornate in uno stato di totale apatia e indifferenza verso le sorti del mondo, e anche delle mie. Per darmi una scrollata decisi, contrariamente ai miei propositi e ai consigli dei miei genitori, di andare a vedere il primo giorno di esami. La cosa che mi spaventò di più è che la graziosa professoressa di italiano ignorava bellamente il nostro programma, e faceva, sfoderando un ammaliante sorriso-mostra-canini degno di una Sirena, domande che sembravano fuori dal mondo: «ragioniamo assieme sul senso di colpa in Kafka», «cosa rappresenta il Maestro di Bulgakov», «mi racconti la giornata del protagonista dell’Ulisse di Joyce»… Quest’ultima domanda (che mandò nel pallone la mia sfortunata, anche se secchiona, compagna) mi mise i brividi addosso. Tornai a casa e mi sfogai con mia madre preannunciandole una sicura bocciatura: «e poi Joyce non l’ho mai letto!». Lei invece non si perse d’animo e la sera rincasò con il voluminoso tomo dell’edizione italiana di Mondadori. Mi parve una sfida che non potevo non raccogliere. Così mi ficcai a letto e iniziai il mio viaggio in compagnia di Bloom. Grazie a quel libro conservo il ricordo di quei giorni come una specie di incantesimo: tutto quello che avevo attorno perse consistenza e Dublino divenne la mia realtà. Fu quel libro che mi fece davvero maturare, prima che l’esame lo sancisse ufficialmente. Era come se si chiudesse un cerchio: il primo libro che avevo letto da solo, e immensamente amato, a otto anni, una riduzione per ragazzi dell’Odissea, si incontrava, dieci anni dopo, con quella miniera di avventure straordinariamente quotidiane, pervase di sesso e birra.
L’avventura come assenza di avventure. Come nota un personaggio secondario di Milan Kundera: «Sappiamo già da James Joyce che la più grande avventura della nostra vita è l’assenza di avventure. (…) L’Odissea di Omero si è trasferita dentro di noi. Si è interiorizzata. Le isole, il mare, le sirene che ci seducono, Itaca che ci chiama a sé oggi non sono altro che le nostre voci interiori» (M. Kundera, Il libro de riso e dell’oblio, Bompiani, Milano p. 100).