L’erba poetica di Giorgio Agamben
Il timido e riservato filosofo Giorgio Agamben pubblica, negli ultimi anni, molti libri. Quando facevo l’editore (e mandavo in libreria qualcuno dei suoi più significativi lavori) ricordo che, alla Fiera di Francoforte, venni avvicinato da un circospetto editore cinese che mi chiese di poter acquistare i diritti per la traduzione di Stato di eccezione (Bollati Boringhieri, 2003). Aggiunse subito che non potevano pagare molto, anche perché non avrebbero potuto garantire un’alta tiratura. Alla mia domanda in proposito rispose, abbassando gli occhi quasi rammaricato: “quarantamila copie”. Da allora, soprattutto grazie alla collaborazione con la Casa editrice nottetempo e Ginevra Bompiani, sono usciti tantissimi suoi volumi, di tutte le dimensioni, tradotti in molte lingue (Agamben è il filosofo italiano vivente più tradotto e conosciuto all’estero).
Attendo sempre i suoi nuovi libri con molta curiosità, perché sono una festa per l’intelletto, oltre che un piacere per la lettura. Agamben scrive assai bene, oscillando spesso tra poesia e filosofia (“la poesia possiede il suo oggetto senza conoscerlo e la filosofia lo conosce senza possederlo”), anche se, dopo la morte del suo maestro Martin Heidegger, sostiene di essersi congedato dalla poesia “in nome di una pratica poetica che non avrei più abbandonato: la filosofia, la musica suprema”. Ma oggi però afferma: “Io non sono un filosofo, ma un poeta. (…) Chi pretende di scrivere di filosofia senza porsi il problema poetico della sua forma non è un filosofo”. E ricorda che Wittgenstein aveva scritto: “La filosofia la si dovrebbe propriamente soltanto poetare”.
La sua cospicua produzione si spiega, secondo me, oltre per il fatto di avere ancora molte cose da dire, con un’urgenza di renderle pubbliche per una sorta di continuo riaggiustamento delle questioni che gli stanno più a cuore: “Ho sempre immaginato più volte di scrivere un libro che fosse solo il proemio o il postludio di un libro mancante. Forse i libri che ho pubblicato sono qualcosa del genere: non libri, ma preludi o epiloghi”.
Gli ultimi volumi di Agamben hanno (inevitabilmente?) il tono di un bilancio. Penso, per esempio, al sorprendente Pulcinella ovvero Divertimento per li regazzi (nottetempo, 2015) che, analizzando le tavole su Pulcinella (“un funambolo che cammina su una corda inesistente”) di Giambattista e Giandomenico Tiepolo, riflette sul fragile confine tra tragedia e commedia (“la filosofia ha a che fare sia col riso che col pianto”) e ammette: “Nella vita degli uomini la sola cosa importante è trovare una via di uscita. Verso dove? Verso l’origine. Perché l’origine sta sempre nel mezzo, si dà solo come interruzione. E l’interruzione è una via d’uscita”.
Nel suo ultimo libro appena pubblicato, Autoritratto nello studio (nottetempo, 2017) questa “via di uscita” sembra potersi trovare nella memoria. Come fece un altro suo maestro, Aby Warbug (che ha ispirato uno dei suoi libri più importanti: Stanze. La parola e il fantasma nella cultura occidentale, Einaudi, 1977), ricapitolando il senso del suo pionieristico lavoro per comprendere il simbolico in una serie di fondamentali tavole che costituiscono un “atlante della memoria per immagini” (Mnemosyne, 1929), Agamben racconta la sua vita, i suoi amici e maestri e la genesi delle sue idee, attraverso alcune foto, e oggetti, presenti nelle stanze dove ha lavorato. Le foto a colori panoramiche degli studi dove ha lavorato (a Roma e a Venezia: “ho imparato a farmi intimo di Venezia, a scoprire che una città morta può essere, come spettro, segretamente più viva non soltanto dei suoi abitanti, ma di quasi tutte le città che avevo conosciuto”) provocano anzitutto invidia per l’ordine e la precisione che testimoniano. Ma le facce che fanno capolino dalle pareti e dalle cornici compongono un pantheon di “amici” assai vario: Martin Heidegger; René Char; Herman Melville e la balena bianca; Hannah Arendt; Nicola Chiaromonte; Robert Lowell; Friedrich Hölderlin; Ingeborg Bachmann; Simone Weil; José (Pepe) Bergamín; Tiziano Vecellio; Giorgio Caproni; Alfred Jarry; Pierre Bonnard; il contrabbassista Stefano Scodanibbio; Jean-Luc Nancy; Giorgio Manganelli; lo scultore Francisco (Paco) López e la pittrice Isabel Quintanilla; Walter Benjamin; Giorgio Colli (“la cui opera, assieme a quelle di Enzo Melandri e di Gianni Carchia resterà certamente a testimoniare del pensiero italiano del Novecento; degli altri, che vengono presentati in televisione come i maggiori filosofi del nostro tempo, non resterà assolutamente nulla”); Robert Walzer; Claudio Rugafiori: Bobi Bazlen; Giorgio Pasquali; i due cantores di flamenco Manuel Rodríguez, detto Pies de Plomo ed Enrique Montes; Eugenio Montale; Guy Debord; Elsa Morante; Patrizia Cavalli; Pier Paolo Pasolini (il giovane Agamben fu attore nel Vangelo secondo Matteo, 1964)…
Tra le belle foto che scandiscono il libro c’è anche la riproduzione del particolare di un affresco della grotta di Lascaux, con l’immagine dell’uomo morente col fallo eretto e un bisonte sventrato, che permette ad Agamben di fare questa considerazione: “Forse soltanto in quei momenti, in cui si trova di colpo spostato indietro nel tempo di ventimila anni, l’uomo può comprendere se stesso. La preistoria è più vera della storia, perché non ci è stata trasmessa da una tradizione, non conosce documenti, ma appare di colpo” come per caso. I documenti fotografici dei quali si serve Agamben per ricostruire il suo personale atlante della memoria gli si squadernano davanti come scintille della memoria. Lui tenta, quando gli è possibile, un racconto ordinato cronologicamente, partendo proprio dalla sua foto in compagnia di Heidegger, a Le Thor, nel 1966. Il senso di questa carrellata di ricordi e considerazioni è nel riconoscimento di un forte debito verso gli altri: “Io sono un epigono, nel senso letterale della parola, un essere che si genera solo a partire da altri e non rinnega mai questa dipendenza, vive in una continua, felice epigenesi”.
Molte delle persone ricordate non sono più vive. Il ricordarli li fa risorgere in ogni istante. La memoria non implica la loro presenza, anzi li mantiene lontani nel passato. Qui, tra le pieghe di questo singolare libro illustrato che evoca le sue persone importanti, e fa un originale bilancio di una vita trascorsa, si affaccia il pensiero di Dio: “Nell’istante eterno in cui siamo in Dio, fra i vivi e i morti non c’è più differenza, noi risorgiamo in loro come essi in noi”. All’amico spagnolo José Bergamín (al quale Ginevra Bompiani ha dedicato un affettuoso ricordo: L’ultima apparizione di José Bergamín, nottetempo, 2014), Agamben riconosce il debito di aver capito che “Dio non è monopolio dei preti e che, come la salvezza, io potevo cercarlo solo extra Ecclesiam. (…) Come Pepe io vivevo in qualche modo con Dio, ma senza i conforti della religione”.
Nella chiusa, molto poetica, del libro, Agamben confessa di riporre le proprie speranze non nel cielo, ma… nell’erba: “Nell’erba – in tutte le sue forme, i ciuffi di steli sottili, il trifoglio gentile, il lupino, la portulaca, la borragine, il bucaneve, il tarassaco, la lobelia, la mentuccia, ma anche le gramigne e l’ortica, in tutte le loro sottospecie, e il nobile acanto…”. Un vero e proprio pantheon verde. Tanto che l’ultima frase chiarisce esplicitamente: “L’erba, l’erba è Dio. Nell’erba – in Dio – sono tutti coloro che ho amato. Per l’erba e nell’erba e come l’erba ho vissuto e vivrò”.
L’erba diventa ora, nel sentire di Agamben, la “via d’uscita” (l’unica?). Come aveva scritto alla fine del libro su Pulcinella: “Il segreto di Pulcinella è che, nella commedia della vita, non vi è un segreto, ma solo, in ogni istante, una via d’uscita”. La fragile erbetta è memoria e speranza, bellezza e salvezza dalla Storia. Siamo forse tornati alla miniaturizzazione, alla “salvezza nel piccolo”, della quale Agamben parlava nel suggestivo Infanzia e storia. Distruzione dell’esperienza e origine della storia (Einaudi, 1978), con una Natura non più murata nella sua lingua silenziosa, ma illuminata da una seppur incerta luce di speranza.