Luoghi di preghiera interreligiosi
Molti sostengono che un buon esempio di luogo di preghiera interreligioso si trovi nell’Aeroporto internazionale di Gatwick, a sud di Londra, da dove partono la maggior parte dei voli low cost per il mondo. Prima di accedere all’area di imbarco, nel corridoio sulla destra, di vede un tabellone, come tutti gli altri retroilluminato, con su scritto: Chapel & prayer room. All welcome. Sul tabellone compaiono sei simboli: cristiano, islamico, indù, sikh, buddhista, ebraico. Scintoisti, confuciani, e la miriade di altre religioni, non sono presi in considerazione.
Il locale, inaugurato nel 1973 (e inizialmente dedicato alle tre religioni monoteiste), è composto da una piccola stanza corridoio con alcune sedie e un altare. Sulla destra, ci sono delle specie di nicchie nascoste da tende, che si aprono su spazi separati, dedicati alle religioni diverse da quella cristiana. È un locale brutto e squallido, anonimo e freddo (a causa anche dell’uso eccessivo di luci al neon). Si apprezza ovviamente la buona e lodevole intenzione, ma in un luogo simile non si percepisce nessun senso di spiritualità: sembra di stare in locale di massaggi orientali. Il fatto di tenere ben separate le varie confessioni, nonostante l’ingresso comune, più che una forma di rispetto per le diversità pare il segno dell’incapacità filosofica, ma anche architettonica, di esprimere un tentativo di ricerca di un momento unitario tra le genti delle varie fedi.
Questa non mi pare la strada giusta che possa condurre a un efficace percorso, e a un luogo, di incontro e dialogo. E nemmeno lo sarà la ben più ambiziosa House of One. Drei Religionen Ein Haus presso il Bet-und Lehrhaus (Casa di preghiera e scuola), progettata dallo studio Kuehn Malvezzi di Berlino, che verrà inaugurata nel 2018 nell’antica Petriplatz al centro di Berlino e che riunirà, come annunciato, sotto un solo tetto, cristiani, ebrei e musulmani. Ancora una volta ciascuno dei tre spazi sacri rifletterà le specificità di ciascuna religione mantenendole di fatto separate. Infatti, nel bando di concorso, era stato chiesto esplicitamente di “preservare la diversità come fondamento del dialogo, per consentire un incontro tra le comunità in una dimensione di pluralismo” .
Se gli spazi interreligiosi debbono essere la sommatoria, con spazi rigorosamente divisi, seppur sotto lo stesso tetto, allora è paradossalmente molto più apprezzabile lo spirito del sincretismo new age del “Guthrie Center” a Great Barrington (Massachusetts), perché è almeno sostenuto da convinzioni interreligiose veramente vissute, e non immaginate diplomaticamente a tavolino. Arlo Guthrie, figlio del famoso cantante folk Woody Guthrie e della danzatrice ebrea Marjorie Mazia, anch’esso cantante, è conosciuto soprattutto per la ballata The Alice’s restaurant Massacre (1967) che stava alla base del film di Arthur Penn (Alice’s Restaurant, 1969): «Puoi avere di tutto nel Ristorante di Alice / Entra pure, è dietro l’angolo / A mezzo miglio dalla stazione / Si può avere di tutto nel Ristorante di Alice». Arlo comprò, nel 1991, per 300.000 dollari, la chiesa sconsacrata che ospitava il ristorante, a Great Barrington, e l’ha trasformata in una chiesa interreligiosa della quale è diventato il pastore. Nel “Guthrie Center” si celebrano battesimi e bar mitzvach, matrimoni e funerali di tutte le religioni. Il “santuario”, riconsacrato all’inizio degli anni Novanta, è oltre che la proposta di una religiosità sincretica, anche un tempio alla memoria dei suoi celebri genitori, cui Guthrie dice di “dovere tutto quello che so sulla fede». E racconta di quando, da piccolo, la sorellina Cathy rimase mortalmente ustionata in un incendio: «Mamma la portò di corsa all’ospedale dove, all’arrivo, l’infermiera le chiese quale religione doveva scrivere nel modulo. “Tutte”, replicò Marjorie. E quando quella disse che non era possibile le ordinò di mettere “nessuna”. Il padre Woody arrivò venti minuti più tardi e senza essersi mai consultato con mamma ripeté esattamente la stessa frase.
Tutti i tentativi ecumenici e di dialogo interreligioso sono da apprezzare e incoraggiare, soprattutto in tempi di crescente intolleranza, come quelli che stiamo nuovamente vivendo, ma se producono ibride accozzaglie contigue (locali ben contraddistinti dove ognuno entra a cercare il proprio Dio) e, soprattutto, brutti e squallidi edifici, ottengono l’effetto contrario. Mantenere, per un rispetto comprensibile, i differenti simboli religiosi, e gli spazi, ben separati e distinti, non crea nessun senso di comunità e fraternità. I separé, i paraventi, le tende, pur essendo più “leggeri”, non fanno che perpetuare i muri e le nefande barriere tra gli uomini, in nome delle differenti credenze.
In questi edifici, denominati “spazi interrelligiosi”, saltano agli occhi gli effetti di una progettazione architettonica contemporanea che, scomparsi i grandi maestri, è purtroppo, nella maggior parte dei casi, priva di una riflessione culturale e filosofica profonda. L’architettura senza un pensiero sull’uomo e il suo destino (e non soltanto sulle funzioni degli edifici e sulle forme e i materiali usati) è inefficace e spesso controproducente rispetto alle aspirazioni e alle intenzioni dei committenti pubblici o privati che siano.
La progettazione di edifici interreligiosi deve esser per forza preceduta da una riflessione su che cosa abbiano in comune le varie religioni, non tanto sui simboli quanto sulle loro profonde e, per molti versi misteriose, radici. E questo mistero ha soprattutto a che fare con la Morte. Le speranze e le promesse che le religioni suscitano sono risposte al dolore e alla morte degli esseri umani, allo “scandalo” della fine che è comune a tutti coloro che nascono. Si deve tentare di trasformare gli “spazi di preghiera interreligiosa” in “luoghi di meditazione comune”, senza simboli ma con un’architettura aperta e la presenza significativa di opere d’arte che, con la loro bellezza, creino l’atmosfera giusta per sentirsi assieme uguali, seppur con risposte e modalità di preghiera diverse. Spazi dove ciascuno possa sentirsi, come scriveva Paolo di Tarso, “tempio del Dio vivente”.
Il grande pittore americano Mark Rothko (l’ebreo lettone Marcus Rothkowitz, 1903-1970) era convinto che nell’arte “deve esserci una preoccupazione manifesta per la morte: delle allusioni alla condizione mortale. […] Arte tragica, arte romantica ecc. hanno tutte a che fare con la consapevolezza della morte […]. Tutta l’arte è in rapporto con la morte”. L’arte possiede un’intima sacralità. Attinge all’origine della vita e della storia, è espressione di trascendenza, è attesa dell’Assoluto. Come ha notato Giorgio Agnisola (Avvenire, 17 gennaio 2015) l’arte di Rothko ha un suo cammino di progressiva essenzializzazione che non riguarda solo l’aspetto stilistico, ma che attiene al senso stesso della sua opera e della stessa arte. Rothko concepiva le proprie opere come pannelli, diaframmi di luce e colore, dotati di una loro palpabile fisicità: «pulsating concreteness of real flesh and bones». Col passare degli anni, i cromatismi dei suoi dipinti perdono ogni frangia o sfumatura dei sensi rapportati alla realtà e si pongono nudi al cospetto dell’infinito. Alcune opere conclusive di Rothko, soprattutto i neri, i colori scuri comunque uniformi, sono la testimonianza non di una povertà di espressione sopraggiunta nel tempo della crisi ma di una personale sintesi del linguaggio maturata sul filo di una ricerca estrema, drammatica e definitiva. Come notò Michel Butor «con la propria pittura Rothko vuole istituire un luogo di silenzio, di purificazione, di giudizio».
L’evoluzione della pittura di Rothko è andata di pari passo con la sua consapevolezza di uno stretto rapporto con lo spazio architettonico. In questo senso fu certamente influenzato dal suo viaggio in Italia (nel 1959), dove, a Firenze, rimase assai colpito dalla Biblioteca Laurenziana di Michelangelo e dal complesso delle celle del Convento domenicano di San Marco, affrescato da Beato Angelico. In molti suoi dipinti si trovano aperture propriamente architettoniche: «I miei dipinti sono in verità facciate (come sono state chiamate). A volte apro una porta, una finestra, altre volte due porte e due finestre».
Il significato dell’opera di Rothko si esemplifica nell’ultimo suo grande lavoro: la Cappella aconfessionale di Houston (Texas), che venne inaugurata il 27 febbraio 1971 nel primo anniversario della sua morte. Nella primavera del 1964 John e Dominique de Menil (fondatori anche del vicino Menil Collection) commissionarono a Rothko una serie di pannelli murali per la cappella cattolica dell’Università of Saint Thomas di Houston. A Rothko venne data ampia libertà per la progettazione dell’edificio, ma dovette scontrarsi con il progetto originale dell’architetto Philip Johnson (con il quale il pittore aveva già avuto a che fare, nel 1958, quando il ristorante The Four Seasons, che Johnson aveva progettato ai piedi del Seagram Building di Mies van der Rohe, in Park Avenue, gli commissionò dei grandi pannelli orizzontali per abbellire il locale: Rothko non onorerà mai questa commissione e oggi quei pannelli sono conservati alla Tate Gallery di Londra). Il progetto fu allora cambiato per creare uno spazio per la meditazione decorato con i suoi dipinti. I piani dello “cappella interreligiosa” videro molte revisioni e architetti. Rothko continuò a lavorare prima con l’architetto Howard Barnstone, poi con Eugene Aubry. La forma dell’edificio, un ottagono iscritto in una croce greca, e il design della cappella sono stati ampiamente influenzati dall’artista. La forma ottagonale (otto è una cifra sacra a molte religioni) ricorda quella di un battistero, quasi a voler suggerire un rito di iniziazione.
All’interno della cappella, Rothko realizzò 14 opere di grande formato, tre trittici e cinque quadri singoli. La luce proviene dall’alto: è indiretta e diffusa. I trittici furono collocati sui due lati principali, a destra e a sinistra. Tra di essi un grande pannello centrale leggermente rialzato. Il trittico posto sul fondo, invece, collocato in una nicchia, è assolutamente regolare. Qui il movimento irregolare, si direbbe a onda, dei trittici laterali si arresta, ha una pausa. Singole tele sono poste sui lati obliqui, fanno da contrappunto ai trittici. Lo spazio è studiato nel suo insieme e così il suo apparato iconografico: le tele sono parte del tutto ed è l’insieme a restituire il senso di un’atmosfera sospesa e contemplativa, che scava dentro, che immette nel mistero. Le stesse piccole porte ricavate sulle pareti laterali sono pensate in relazione all’intera tensione emotiva e psicologica della cappella; di fatto non sembrano più porte, ma si collegano visivamente alla teoria delle tele. La cappella è chiusa in sé, abbandona il mondo, immerge in un universo ulteriore. Lo sguardo è come “inaspettatamente invischiato, intrappolato tra le presenze cieche e mute che sono i pannelli murali”. Il colore delle tele è tendente al viola scuro ed è cangiante a seconda della luce e dei momenti della giornata.
Questi grandi dipinti furono realizzati, tra il 1965 e il 1967, nel nuovo studio di Rothko a New York (al 157 di East 69th Street), un ex deposito di carrozze illuminato da un lucernario centrale. Con l’aiuto dei suoi assistenti, installò un sistema di tiranti, muri di cartone provvisori di identiche misure, e schermi per la luce così da poter ricreare, all’interno dello studio, l’ambiente della cappella di Houston. Le parole che Rothko scrisse, nel 1965, a John e Dominique de Menil, allorché fu incaricato di realizzare i dipinti per la Chapel di Houston sono di entusiasmo e gratitudine profonda. Intravedeva nel lavoro commissionato l’opportunità di una totale avventura dello spirito: «Mi insegna a librarmi in alto». È con questi sentimenti e con una tensione psicologica estrema che l’artista si mise a lavorare. È un’avventura che assume il tono di un’esperienza religiosa. Fu lo stesso Rothko a dichiararlo: commentando l’effetto che i dipinti della cappella avevano sul pubblico, disse: «Quando [i visitatori] piangono davanti ai miei quadri vivono la stessa esperienza religiosa che ho vissuto io quando li ho dipinti». Del resto basta ascoltare la composizione Rothko Chapel (1971), che il compositore americano Morton Feldman (1926-1987) scrisse appositamente per quel luogo, per comprendere la forza spirituale di quello che può essere considerato il testamento di Rothko.
Furono gli stessi committenti ad assecondare l’artista nell’idea di una cappella ecumenica: l’opera nel suo complesso interpreta un invito a un viaggio personale, al di là di ogni confessione. Il nero dei suoi ultimi lavori, i grandi Untitled del 1969, della serie Black on Gray, restituiscono il senso di un mistero portato all’estremità del buio. Rappresentano un totem della Fine: dalla zona grigia della vita al buio della morte; oppure: un teatro ormai deserto con un impenetrabile sipario nero; ma anche: una notte senza stelle su un grande lago ghiacciato. Rothko si trovava ormai distante dalle cose del mondo, sul confine della vita, pronto all’esodo.
Susan J. Barnes ha scritto: «La Cappella Rothko è diventata il primo centro del mondo ampiamente ecumenico, un posto sacro aperto a tutte le religioni, ma che non appartiene a nessuna. È diventato un centro per scambi culturali, religiosi e filosofici internazionali, per seminari e rappresentazioni. Ed è diventato un posto per la preghiera priva di individui di ogni fede».