Mamma Londra
A Londra, in questi giorni, mentre le folle sciamano per il centro correndo agli ultimi acquisti natalizi, capita di svoltare l’angolo e nella viuzza semibuia imbattersi in un nugolo di poliziotti blindati con i cani che a gesti obbligano a passare sotto improvvisate porte metal detector. Ma, nonostante la tensione che si percepisce nell’aria (comune alle altre capitali europee) a Londra sto benissimo e torno bambino, anche se di notte faccio strani sogni e di giorno mi capitano buffe allucinazioni. Mancavo da alcuni anni e la cosa un po’ mi pesava perché Londra è la città straniera che conosco meglio assieme a Varsavia: mi è così familiare che non la sento lontana da Milano o Firenze. Nel frattempo gli inglesi, con un confuso referendum, si sono espressi per “uscire dall’Europa”. L’altra sera, mentre bevevo un boccale di birra “Hell”, in uno sdrucito pub dalle parti di South Kensington con la speranza di conciliare il sonno, ho saputo dai due anziani che servivano al bancone che loro, «pur non avendo nulla contro gli italiani», erano felici di andarsene dall’Europa: «perché l’Inghilterra non è più degli inglesi». La loro privata disgrazia l’hanno riassunta in poche frasi: a causa della crisi economica, hanno dovuto vendere il pub a dei thailandesi che, durante il giorno, servono, assieme alla birra, «puzzolenti cibi orientali». L’Europa viene vista come la porta spalancata agli stranieri, agli arabi, ai russi e agli orientali che si sono comprati quasi tutto (dalle squadre di calcio ai supermercati).
Al momento, gli effetti della Brexit (che va ancora ratificato dal parlamento e discussa in una complicata e inedita trattativa con Bruxelles) non si vedono, sia perché, stando alle analisi del voto, a Londra la maggioranza aveva scelto di rimanere in Europa, sia perché le differenze più vistose e stridenti (come la moneta) sono rimaste sempre quelle e l’Europa non era riuscita comunque a metterle in discussione. E prima del referendum il governo Cameron aveva ottenuto dall’Europa ancora così tanti distinguo e dilazioni temporali che, comunque, la Gran Bretagna sarebbe rimasta più con un piede fuori che dentro. Il paradosso più evidente è che in ogni parte d’Europa uno si rechi (da Atene a Vilna, da Lubiana a Berlino) se si vuole intendere parla l’inglese. Linguisticamente l’Europa è unita grazie alla lingua di Shakespeare. E così, com’era con il latino nell’antichità e il francese nella modernità, l’inglese è la lingua che ti fa comunicare ovunque nel mondo. Ma è per altre ragioni che l’inglese è, per me, la più bella lingua: è la lingua di mia madre (che pure era viareggina).
Proprio lingua inglese è ciò che agita le mie notti londinesi. Mi son tornati in sogno i vicini di casa di quando ero piccolissimo e abitavo all’ultimo piano di un moderno palazzo nel quartiere de Le Cure, a Firenze. Erano un simpatico e modesto pittore comunista (figlio dello spregiudicato costruttore del nostro edificio), la sua bella moglie (una sorridente signora bionda e americana) e il loro buffo e dispettoso bambino, che già allora parlava perfettamente sia l’italiano che la lingua della sua mamma. La mia mamma invece l’inglese lo insegnava nei licei e, come molte professoresse d’inglese, adorava tutto di quel mondo: Shakespeare e il pudding, il the e Britten, l’architettura gotica ma anche quella brutalista, le corse dei cavalli e Turner. Ma soprattutto, nonostante condividesse con mio padre e col vicino pittore la medesima fede politica, amava incondizionatamente la regina britannica.
La mia anglofila mamma, additando come virtuoso esempio la signora americana e suo figlio (nonostante avesse da ridire sul loro fastidioso accento yankee) e anelando subito a indirizzarmi sulla giusta strada linguistica e culturale, convinse il babbo che lei mi avrebbe parlato in inglese e lui, che era oltretutto di poche parole, in italiano. Il risultato fu che a tre anni ancora non spiccicavo verbo, emettendo soltanto inquietanti suoni disarticolati, soprattutto quando avevo fame. La saggia nonna ricordava che guardavo con occhi sgranati e perplessi i miei parenti che provavano a stimolarmi con tutte le lingue e dialetti a loro conosciuti. Venne così consultato un famoso logopedista che, a causa di un’operazione per un tumore alla gola, parlava con la voce metallica di un apparecchio nascosto sotto un civettuolo foulard. Il Dottore diagnosticò una grave forma di “babilonite” e rimproverò i miei affranti genitori sostenendo che i bambini si accorgono perfettamente se con loro “si trucca” (la mamma infatti era costretta a parlare in italiano col babbo perché lui l’inglese non lo sapeva). Impose quindi loro di parlarmi all’unisono soltanto in italiano. La terapia ebbe successo ma, dopo pochi giorni, i miei genitori si dovettero pentire: tolto il blocco, iniziai a chiacchierare in continuazione.
La mamma però non si arrese e continuò a leggermi in inglese le storie per addormentarmi. Erano storie tristissime, come Peter Pan o, la sua preferita, The Happy Prince di Oscar Wilde, che narra di una statua, fatta di diamanti e oro, di un principe che, piangendo e implorando, costringe un disponibile uccellino ad attraversare su e giù la città, fino a morirne stremato, per recapitare ai poveri e agli affamati pezzi del suo prezioso materiale.
Mi sono spesso chiesto da dove venisse la passione della mamma per l’Inghilterra. Tutto iniziò probabilmente a causa di un’amore impossibile. Quando le truppe inglesi irruppero a Firenze, cacciando finalmente i tedeschi, le suore inglesi di via Santa Reparata, dove la mamma studiava con profitto la “lingua della perfida Albione”, organizzarono dei balli per festeggiare gli ufficiali britannici. La mamma e la sua migliore amica andarono con variopinti vestiti azzurri e bianchi e fecero colpo su un tenente dell’aeronautica scozzese e un capitano-ingegnere inglese. Quest’ultimo si sposò dopo un anno con l’amica e la portò con se a Londra. Lo scozzese della mamma dimostrò di avere intenzioni molto meno serie e se ne tornò in patria troncando rapidamente lo scambio epistolare, che lei infarciva di citazioni dalle poesie di Thomas Stearns Eliot.
Dopo una ventina d’anni, e raggiunto finalmente un certo benessere (si fa difficoltà ad immaginare come fu povero e difficile il dopoguerra dei vincitori britannici), l’amica strappò al marito inglese la promessa di tornare tutte le estati due mesi in Italia. E così la mamma ebbe a disposizione, dalla metà degli anni Sessanta, una casetta a tre piani tutta per lei e noi figli (il babbo si rifiutò sempre di accompagnarci, preferendo tornare in vacanza nella sua Sicilia, anche per non trovarsi in una condizione di dipendenza linguistica). Da scrupolosa professoressa, la mamma seguiva corsi di aggiornamento sui nuovi modi di dire organizzati dalla BBC, e ci parcheggiava in una scuola estiva dove anche noi affinavamo la lingua ma più di tutto la tecnica del football (nel 1966 ci furono a Londra, tra l’altro, i mondiali di calcio e io ero tifoso dell’oggi settantanovenne, ma sempre arzillo, Sir Bobby Charlton). Londra in quegli anni era ricchissima di fermenti culturali e musicali. Noi ragazzini apprezzavamo, oltre alla musica, soprattutto le minigonne, i capelli lunghi e la cioccolata Kit-kat. Dopo ogni estate, mio fratello e io tornavamo a scuola a Firenze ricchi di notizie ed esperienze che ebbero il loro culmine (avevo ormai quattordici anni) nel concerto dei Pink Floyd, dentro Hyde Park, che il Comune di Londra regalò a circa un milione di persone (il 18 luglio del 1970). La mamma ci accompagnò rimanendo stordita dalle nubi di fumo di cannabis, dai potenti decibel (nonostante fossimo lontanissimi dal palco) e dalla sfrontatezza di decine di ragazze e ragazzi che si misero, a un certo punto, a ballare allegramente nudi.
Quella città di allora mi è rimasta appiccicata addosso condizionando tutte le, frequenti, visite successive. È lì soprattutto che è sopravvissuto forte il ricordo di mia madre (che, quando eravamo più grandi, ci andò da sola fino a pochi mesi prima di morire). Lei ci avrebbe voluti inglesi: quello era il modello al quale ci saremmo dovuti conformare. L’Inghilterra era il suo “socialismo reale”: quello autentico: “del welfare, della libertà, delle buone maniere e della casa regnante”. Lei che, a differenza del babbo (che era stato suo professore), non aveva alcuna simpatia per l’Unione Sovietica, ce lo confessò candidamente quando andammo a portare rose rosse sulla tomba di Karl Marx nel malinconico cimitero di Highgate, a nord della città.
Quando sono a Londra, di fronte a un palazzo, in una piccola strada, seduto su una certa panchina di un parco, ho la sensazione che la realtà mi si appanni e, come in un’allucinazione, mi vedo con i pantaloni corti e la giacchetta che parlo con mia madre in inglese. Per un buffo paradosso, dopo essermi occupato molti anni fa di Peter Pan e dell’immaturità, qui a Londra mi bambinizzo. Quel demonietto svolazzante di Peter, che ostinatamente non voleva crescere e diventare adulto, mi tira giù per i piedi e mi riporta indietro di cinquant’anni. L’ammonimento della mamma («attenti alla seduttiva doppiezza di Peter Pan!») diventa inutile perché è proprio lui che mi riporta da lei. Sbuca fuori, quando meno me l’aspetto, da ogni anfratto. Sogghigna e mi ripete la terribile frase: «morire sarà un’avventura bellissima».
Se l’Europa unita, come sono convinto, è la maturità dei popoli di questo continente, essa è ovviamente difficile e pesante come lo è l’età adulta. L’Inghilterra ha scelto di rifugiarsi nella confortevole infanzia, dove tutto appare più facile e fioriscono le illusioni. Per il momento ha vinto Peter Pan, anche se lui, come sappiamo, vola verso “l’isola che non c’è”.