Il linguaggio dell’immaturità
Da parecchio tempo sembra di assistere a ciò che, lucidamente e drammaticamente, aveva descritto il Grande Inquisitore ne I fratelli Karamazov (1880) di Fëdor M. Dostoevskij:
«Ecco l’odierna sorte degli uomini: piccoli bimbi che si sono ribellati in classe e hanno cacciato il maestro. Ma anche l’esaltazione dei ragazzetti avrà fine e costerà loro cara. Essi abbatteranno i templi e inonderanno di sangue la terra. Ma si avvedranno infine, gli sciocchi fanciulli, di essere bensì dei ribelli, ma dei ribelli deboli e incapaci di sopportare la propria rivolta. (…) Noi invece proveremo loro che sono deboli, che sono soltanto dei poveri bimbi, ma che la felicità infantile è la più dolce di tutte».
Alcuni sabati sera fa, quando ho acceso la televisione per vedere le notizie del telegiornale, davano in diretta il comizio di Beppe Grillo a Palermo. Preso da un raptus di curiosità mi sono seduto sul divano e ho iniziato a seguirlo. Mio figlio tredicenne mi si è accovacciato accanto, pronto ad addormentarsi. Invece ho percepito che stava seguendo anche lui. A un certo punto ha sussurrato: «Però su certe cose ha ragione, e poi le dice in modo chiaro e divertente!».
Grillo è indubbiamente un uomo di spettacolo: tiene bene il palcoscenico, capisce quando deve piazzare la battuta, urla e fa finta di arrabbiarsi per rafforzare quel che dice, salta di palo in frasca senza perdere il filo, ma facendolo perdere spesso a chi lo ascolta. Il suo argomentare però pare a volte quello di uno spaccone da bar. A un certo punto, per sottolineare il fatto che l’Italia è in ritardo mentre le tecnologie altrove permettono già una migliore e più giusta qualità della vita, ha fatto un esempio incredibile: «Nel Nord dell’Europa hanno delle auto elettriche che funzionano come degli accumulatori di energia. La sera si attaccano alla spina. La notte l’energia costa la metà perché le fabbriche sono chiuse. La mattina se usi la macchina te ne vai con la tua energia pulita a basso costo, ma se non la usi rivendi l’energia che ha accumulato, sempre con la spina, a chi, a quel punto, te la paga il doppio…».
Bella visione del futuro (se solo la volessimo realizzare!): semplice ed entusiasmante. La ricchezza virtuosa alla portata di tutti. Anche un ragazzino capisce e apprezza. Ciò che fa impressione è l’uso di un linguaggio immaturo, senza riferimenti precisi, basato sul sentito dire da ribadire in una modalità infantile da leggenda metropolitana.
Questo modo di parlare e fare politica non è certamente una cosa nuova, né una prerogativa esclusiva del leader di Cinque Stelle. Come ho mostrato nel libro Immaturità. La malattia del nostro tempo (Einaudi 2004; ed. ampliata e aggiornata: 2014), dalla metà dell’Ottocento, in Europa, ha preso sempre più il sopravvento il mito di una vita priva di riflessione, senza intrusione dell’intelletto. Si guarda con orrore alla maturità come a un sinonimo di conformismo e a un venir meno della propria identità scendendo a patti con un presente che non ci piace (ma che si finisce poi per accettare passivamente e amaramente perché, tutto sommato, più comodo). Aveva ragione Milan Kundera, nel suo capolavoro Il libro del riso e dell’oblio (1981):
«I bambini non sono l’avvenire perché un giorno saranno adulti, ma perché l’umanità si avvicina sempre di più a loro, perché l’infanzia è l’immagine dell’avvenire».
La storia del Novecento ci ha mostrato drammaticamente che una cultura giovanilistica e immatura, e la pratica su di essa basata, sono in realtà assai reazionarie e foriere di disastri: la più grande esaltazione del mito della gioventù è stata fatta dai regimi totalitari, che convincono/costringono i giovani a fermarsi sulla soglia e rimanere immaturi, come farà anche il protagonista del Tamburo di latta (1959) di Günter Grass.
Le avanguardie artistiche, che spesso si piccavano di essere anche avanguardie politiche, sono state il trionfo dell’infantilismo. In modo puerile hanno ritenuto di poter spazzar via il mondo giocando a fare i bambini. E allora abbiamo le poesie fatte di sbang, bum, zang, e bing di Marinetti e degli altri poeti Futuristi; la confusione irrazionale del movimento Dada (cavallino a dondolo); le sterili grida dei surrealisti. Tutti questi movimenti finirono per sposare tragicamente la causa dei due grandi movimenti autoritari del Novecento: il Fascismo e il Bolscevismo. Gli adulti-infantili, come i protagonisti di Zelig di Woody Allen o de Il giovane Holden (1951) di J. D. Salinger, ricercano, più o meno consapevolmente, un padre autoritario, sostituto di quello che non hanno mai avuto, perché ormai privo di qualsiasi credibile autorevolezza. Lo scrittore polacco Witold Gombrowicz, con il suo romanzo Ferdydurke (1937), fu il primo a mostrare che il segno distintivo della Modernità non era la crescita o il progresso umano, ma al contrario il rifiuto di crescere, e che da ciò sarebbero derivati, come puntualmente avvenne pochi anni dopo, soltanto lutti e dolori.
Oggi si assiste in Europa, ma anche in molte altre parti di un globo interconnesso nelle cose peggiori, al dilagare dell’immaturità politica. Le vecchie classi dirigenti hanno perso il sostegno degli elettori a causa della loro incapacità di affrontare gli enormi problemi di un mondo che si fa sempre più piccolo e complesso e, in molti casi, si sono screditate a causa della loro corruzione. Ma “la politica è un’arte”, come ribadì sovente Nicolò Machiavelli: arte della mediazione, conoscenza delle regole, coraggio di andare anche contro l’opinione della maggioranza, rischiando in nome del bene la popolarità, la carriera e, a volte, anche la libertà e la vita. Proprio perché è un’arte, la politica non si impara all’università: la si impara nella pratica, con il ragionamento, non certo per cooptazione. E poi, purtroppo, come si vede continuamente, non basta essere onesti per saper ben governare. Non è sufficiente identificarsi con la gente comune e parlare il loro linguaggio semplice per riuscire ad affrontare le questioni della “cosa pubblica” con saggezza, diplomazia ed efficacia. Semplificare tutto e ragionare meccanicamente e pigramente secondo categorie Bene/Male, Ladri/Onesti, Giovani/Vecchi, Casta/Popolo è segno di immaturità e disabitudine metodica al Dubbio come bussola, grazie alla quale funziona bene la nostra testa e si aprono squarci di comprensione della realtà. L’immaturo ritiene ingenuamente che tra il Bianco e il Nero non esista una vasta, e spesso difficilmente comprensibile, Zona Grigia di tutto. Se non si è abituati a vederla e comprenderla non si potrà mai essere né intelligenti né tolleranti.
Il politico immaturo si mette in sintonia continua con la pancia della gente, rincorre i suoi volubili umori, solletica gli istinti più egoistici. Non pratica un’utile politica e non fa fare nessun passetto avanti per tentare di risolvere i problemi. La cinica demagogia può anche portare alla vittoria nelle elezioni, ma soltanto per una breve ed effimera stagione, che aggraverà ulteriormente i problemi ed esacerberà poi la rabbia e l’aggressività.
L’immaturità politica la si coglie poi ovunque nella popolarità crescente dei movimenti religioso-politici radicali. Una volta che, a partire dalla Rivoluzione francese, la politica non si giustifica più sulla base dell’esperienza e del passato, ma su quella delle aspettative e del futuro, si spalancano le porte alle derive religiose, che in quanto a futuro e ad aspettative sono imbattibili. E naturalmente se la politica manca del tutto di aspettative future (come accade oggi sia in Occidentale che in Oriente) allora il fanatismo religioso e quello politico diviene doppiamente imbattibile.
Appaiono alla ribalta capipopolo immaturi, mossi soltanto dall’ambizione personale e dalla voglia narcisitica di vedere nella gente la conferma delle proprie sciagurate idee. È sempre stato così sin dall’antichità: in ogni epoca storica ci sono stati demagoghi che hanno aizzato con successo folle disperate e quindi miopi. Ma oggi il grande pericolo è il populismo sostenuto dall’immaturità diffusa, prodotto dello scadimento del livello dell’istruzione, dalla crisi di valori tradizionali non più sostenibili in un mondo globalizzato e dai nuovi mezzi di comunicazione che ingigantiscono qualsiasi follia, grazie alla “democrazia della rete”.
L’immaturo è oggi un immaturo continuamente attaccato a internet. Sta in mezzo in quello “sciame” del quale parla il filosofo sudcoreano, che insegna e scrive in Germania, Byung-Chul Han. La sua è forse la riflessione più acuta sulla vita di oggi, fortemente condizionata da un uso acritico del digitale. Nel suo libro Nello sciame. Visioni del digitale (Im Schwarm. Ansichten des Digitalen, 2013; trad. it. Nottetempo, 2015), racconta come la trasparenza e i dispositivi digitali abbiano profondamente cambiato gli uomini e il loro modo di pensare. La sua critica mostra che cosa significhi abdicare al significato e al senso per un’informazione reperibile ovunque, ma spesso inaffidabile. Il paesaggio patologico della nostra epoca è causato da eccesso di positività piuttosto che da negatività. La stessa ideologia della community o dei beni comuni collaborativi, che è spesso evocata oggi, conduce alla capitalizzazione totale della comunità: non è più possibile nessun rapporto umano disinteressato. Airbnb ha trasformato in merce anche l’ospitalità, così come ha fatto Facebook con l’amicizia o BlaBlaCar con il passaggio disinteressato (che un tempo si chiamava autostop). In questo bel «condividere», paradossalmente, nessuno più dà qualcosa spontaneamente e si guadagna da tutto, senza nemmeno pagare le tasse. Trionfa un egoismo immaturo che si spaccia per sociale.
Il cittadino digitale crede di poter dire la sua su ogni cosa e di poter votare e decidere da casa propria tramite i tasti del computer o del telefonino; di poter metter mediaticamente alla gogna i “potenti” che ha individuato come suoi nemici; non crede nelle istituzioni democratiche e nell’amministrazione della giustizia; è convinto di poter finalmente governare assieme alla sua comunità perché grida più forte la “sua” verità.
L’immaturità pubblica ha prodotto, negli ultimi decenni, uno stato generale di paranoia. Il presidente della Società italiana di psichiatria, Claudio Mencacci, fece tre anni fa una diagnosi della situazione italiana purtroppo sempre più vera (C. Mencacci, Una società paranoica, in «Corriere della Sera», 13 maggio 2013):
«Siamo sempre piú contagiati da una venatura paranoica. La diffidenza, il sospetto, la rissosità che permeano e inquinano i rapporti tra le persone, le accuse che acriticamente e in modo stereotipato uno schieramento rivolge all’altro, la negazione della possibilità di un dialogo che non si traduca in un alterco o in un pubblico dileggio, accompagnati dalla proiezione sistematica sull’altro delle responsabilità di programmi disattesi, dimostrano quanto gli aspetti, appunto paranoicali, siano operanti nel tessuto sociale attuale. Questo “virus della paranoia” è già in azione, circola nella nostra vita, amplifica la diffidenza dello Stato sui comuni cittadini che a loro volta ricambiano diffidenza e sospetto. E la Storia ci ha insegnato che il passaggio, a volte indolore, dallo Stato di diritto a quello paranoico, non è improbabile».