Esser di ghiaccio
«Molti anni dopo, davanti al plotone di esecuzione, Aureliano Buendìa si sarebbe ricordato di quel giorno in cui suo padre l’aveva portato per la prima volta a vedere il ghiaccio». Così inizia Cent’anni di solitudine di Gabriel García Márquez. A Macondo, il paese dove è ambientato il romanzo e dove faceva sempre un gran caldo, il ghiaccio era considerato un’invenzione, un fenomeno da baraccone, con un sorprendente potere evocativo. Con molta ironia, lo studio viareggino Gumdesign, di Laura Fiaschi e Gabriele Pardi, ha reso omaggio, con un buffo cubetto di ghiaccio, a Márquez, e al suo celebre romanzo, dove il ghiaccio vien considerato «il diamante più grande del mondo».
Per me il giaccio si associa anzitutto a una dimensione domestica. Appartengo infatti a una generazione che ha fatto ancora in tempo a vedere i blocchi di ghiaccio per le “ghiacciaie”, un attimo prima che, agli inizi degli anni Sessanta, si diffondessero i frigoriferi domestici. Nella cucina di mia nonna troneggiava un mobile massiccio in noce, con due sportelloni a chiusura ermetica, foderato di rame. Nel ripiano inferiore si metteva il ghiaccio, sopra si appoggiavano i cibi deperibili. I grossi blocchi di ghiaccio venivano portati da ragazzi con carrettini e introdotti in casa, gocciolanti, avvolti in sacchi di iuta, come opere di Burri. Il ghiaccio veniva prodotto in fabbriche che erano come degli immensi frigoriferi, con ampie celle sotteranee. La più famosa in Italia è quella di Milano, i Frigoriferi Milanesi (dove oggi c’è un Caveau per l’arte e un polifonico centro culturale), inaugurata nel 1890, alla quale, nel 1923, fu affiancato addirittura un maestoso Palazzo del Ghiaccio per artistiche evoluzioni con i pattini, rischiando ogni tanto di rompersi l’osso del collo.
Il ghiaccio ha una struttura cristallina esagonale: nasce dall’acqua e tende a tornare acqua. Tornado allo stato liquido il ghiaccio produce dei suoni. Lo mostra l’artista concettuale americano Paul Kos che ha piazzato otto microfoni attorno a due blocchi di ghiaccio registrando e trasmettendo, attraverso un amplificatore, il suono prodotto dallo scioglimento del materiale che da acqua solidificata torna liquida.
Comunemente si pensa che il ghiaccio sia insapore e inodore. È vero solo fino a un certo punto (come anche per l’acqua): il ghiaccio al contatto con la lingua e le labbra dà un’impressione di leggermente salato (a questo forse allude l’artista britannica Anya Gallaccio, con la sua creazione composta perimetralmente da lastre di ghiaccio e internamente da un nucleo di salgemma). Quanto all’odore, la scrittrice giapponese Yōko Ogawa, nel romanzo Profumo di ghiaccio (1998), racconta delle indagini della giornalista Ryoko (che ha inscritto “freddo” nell’ideogramma del suo nome) per scoprire le cause del suicidio del compagno Hiroyuki, timido e geniale creatore di profumi. Dimostra che il ghiaccio potrebbe avere il profumo dei ricordi… Del resto, nella cultura giapponese, il ghiaccio ha un profondo significato: l’artista Yoko Ono e l’architetto Arata Isozaki hanno realizzato un’opera destinata a svanire al termine della stagione invernale: una sorta di labirinto composto da blocchi di ghiaccio, caratterizzati da un’inaspettata trasparenza e da una sorprendente gradazione di azzurro, provenienti da un lago gelato ad alta quota.
L’aspetto della precarietà, la tendenza a tornare rapidamente acqua, sembra essere la caratteristica del ghiaccio che più ha intrigato gli artisti. Il ghiaccio è come un marmo più malleabile e instabile. L’arte popolare dei paesi nordici ha sempre prodotto sculture di ghiaccio, delle quali non è rimasta traccia (almeno fino all’avvento della fotografia) come accade con i castelli di sabbia in riva al mare. Soprattutto gli architetti sembrano aver colto le potenzialità plastiche, seppur stagionali, dell’acqua gelata come materiale edilizio. L’architetto e scultore russo Alexander Savvich Brodsky, ad esempio, ha costruito sulle rive del lago ghiacciato nella Riserva del fiume Klyazma (Klyazminskoye vdkhr), nella regione di Mosca, una struttura in legno con una rete metallica sulla quale viene spruzzata acqua che, a causa delle rigidissime temperature, rapidamente gela, trasformandosi in una struttura di ghiaccio che si scioglie con il sopraggiungere delle primavera.
Ma la Natura produce anche da sola, spontaneamente, arzigogolate sculture di ghiaccio: dai piccoli ghiaccioli (sempre uno diverso dall’altro) che orlano le grondaie delle case del Nord ai maestosi blocchi degli iceberg. L’artista danese, di origine islandese, Olafur Eliasson, oltre a creare varie forme con spruzzi d’acqua su leggere strutture di metallo, recupera e preserva blocchi ghiacciati esaltandone la bellezza naturale. Un altro artista danese, Jeppe Hein, ha prodotto un perfetto cubo di ghiaccio, per mostrare come la lenta liquefazione del materiale sia un naturale passaggio di stato osservabile in natura ogni giorno, mentre il silenzioso svanire dell’opera d’arte sia invece un fatto imprevedibile e provocatorio. Nessun artista finora è però riuscito a mostrare così efficacemente, e faticosamente, la precarietà del ghiaccio come il flâneur belga Francis Alÿs, residente in Messico, che, nel 1997, si è messo a spingere per nove ore un grosso blocco di ghiaccio attraverso le strade di Città del Messico. Il filmato Paradox of Praxis 1 (Sometimes Making Something Leads to Nothing) documenta questa performance che produce una scia d’acqua fino al momento in cui del blocco di ghiaccio non rimane più niente.
In fondo, come scrisse Robert Musil, ne L’uomo senza qualità, la verità non è un cristallo di ghiaccio, ma un po’ d’acqua che ci sguscia tra le mani.