Disegnare il mondo

Le mappe e le carte geografiche sono un tentativo approssimativo (anche se sempre più perfezionato, grazie alle conoscenze e alle tecnologie) di cogliere e rappresentare la complessità del mondo. Questi indispensabili strumenti di orientamento e di immaginazione scontano, nella loro natura bidimensionale, un difetto non facilmente rimediabile. Nei sussidiari delle elementari, per spiegare l’impossibilità di rappresentare su un foglio o una tela la rotondità della terra, si suggerisce l’esperimento di schiacciare la buccia di mezza arancia su un piano e assistere all’inevitabile spaccatura di quella semisfera porosa in una sorta di, bugiarda, circonferenza a spicchi.
L’alternativa, da quando si scoprì che la terra era rotonda, fu di conservare la riproduzione sferica e costruire i cosiddetti mappamondi. Ma queste palle illustrate erano, a causa delle loro piccole dimensioni, talmente poco dettagliati da essere inutilizzabili, anche per la scomodità, per viaggiare. Gli uomini si son dovuti adattare quindi all’approssimazione delle carte geografiche.

Lo scrittore croato Predrag Matvejević, autore del meraviglioso Breviario Mediterraneo (1987), infarcito di antiche carte e vedute, ha scritto: “Le carte geografiche contengono visioni fondamentali del mondo e della terra (della terra e del mare insieme). Ci fanno scoprire, fra l’altro, le forme e i modi in cui lo spazio veniva concepito e rappresentato, i rapporti con esso e di inserimento in esso (e ciò vale soprattutto per le vecchie carte e i portolani prima dell’invenzione della fotografia e del perfezionamento degli attrezzi di misurazione nautica)”.

Per disegnare bene una carta geografica bisogna staccarsi dalla superficie che si vuole rappresentare e osservarla da un punto di vista sufficientemente alto (a “volo d’uccello”) che permetta di cogliere lo spazio nella sua interezza. Rimane un mistero come abbia fatto, nel 1500, disponendo quindi soltanto di alti capanili, Jacopo de’ Barbari, a disegnare la sorprendente Veduta di Venezia a volo d’uccello, incisa su tavole di legno di pero. Una Venezia disabitata, quasi spettrale nella sua infinità tortuosità, che fa venire le vertigini per la precisione dei suoi dettagli. Questo “allontanamento” dalla realtà è necessario non soltanto per le questioni cartografiche, come scriveva infatti Rainer Maria Rilke: “Si sa quanto male riusciamo a vedere le cose tra le quali viviamo, e spesso soltanto chi viene da lontano sa dirci che cosa ci sta attorno”. Da sempre però ci siamo dovuti dibattere tra scegliere d’innalzarsi e allontanarsi per vedere meglio (ma, distaccandoci, perdere il senso della realtà), e stare con i piedi vicini alla terra (ma smarrire così la visione d’insieme).

Tra tutti i tipi di mappe, quelle che mi hanno sempre affascianto di più sono le “carte geografiche del corpo”: gli atlanti anatomici, soprattutto i più antichi. Particolarmente belle e intriganti sono quelle che servono per la terapia dell’agopuntura cinese. I primi disegni che servivano a orientare la pratica dell’agopuntura si trovano nell’ Huangdi Neijing (Il Canone di Medicina Interna dell’Imperatore Giallo), risalente al 2697, ma probabilmente redatto definitivamente attorno al quarto secolo prima di Cristo. In quel testo, come nelle sue mappe, è indicata la Via (Tao): la chiave del misterioso intrecciarsi di Cielo e Terra. La teoria cinese dell’energia umana sostiene che l’organismo è percorso da dodici meridiani: i canali in cui scorre la qi, la forza vitale di ogni individuo. Quando il flusso si blocca, a causa di malattie, traumi o malesseri emotivi, può svilupparsi una patologia dolorosa o uno stato di disequilibrio. Per ripristinare il corretto passaggio dell’energia interviene l’agopuntura: i punti di pressione sono circa 2000 e vengono definiti nelle dettagliate mappe mediche. Ogni punto energetico prende il nome dal meridiano che lo attraversa e viene numerato in base alla direzione della corrente di qi.

agopuntura

Ma anche queste mappe anatomiche scontano una grande discrasia tra la realtà e la rappresentazione. Il labirinto di fiumi di vene e nervi, pianure di fasci muscolari, catene montuose di ossa, laghi di organi molli, non si fa ordinare e appiattire tanto facilmente: rimangono delle sbavature nella rotondità delle superfici, ombre dove si annidano i misteri delle patologie, amnesie ottiche dovute alla mancanza della tridimensionalità.

Le carte e le mappe non possono quindi mai essere del tutto affidabili, pur essendo utili alla navigazione, all’orientamento, alla terapia. La loro lettura e interpretazione necessità sempre della fantasia. Per questo gli artisti che si sono cimentati nelle rappresentazioni delle mappe di svariato tipo, hanno fatto, e fanno, un lavoro di necessario, e utile, completamento a quello dei cartografi.

Gli artisti infatti possono andare oltre i limiti della cartografia tradizionale colmando con la loro fantasia e creatività le lacune inevitabili che si lasciano quando si vuole tentare di colmare il divario tra realtà e rappresentazione. Inoltre, gli artisti possono smascherare ciò che la cartografia, nella sua voluta “neutralità”, non fa: falsi confini; stati prepotenti; ingiustizie geopolitiche evidenti; contradizioni spaziali; potenziali sommovimenti; precarietà geologiche; catastrofi ecologiche.

Questo era nelle intenzioni, sin dal 1970, di Alighiero Boetti quando iniziò a produrre, in Afghanistan, colorati tappeti rappresentanti la carta del globo. Un importante gesto politico-artistico, compiuto in un paese sempre preda di appetiti coloniali. Un progetto coraggioso di produzione artistica che nasce dall’idea di un singolo e viene poi realizzata collettivamente: “Ho sempre avuto a che fare con una sola persona, alla quale spiegavo precisamente quello che volevo e che lo spiegava a due o tre altre persone, che a loro volta distribuivano il lavoro alle donne”.

Del resto, come ha suggestivamente ricordato Annemarie Sauzeau Boetti (nel libro Alighiero e Boetti, Allemandi 2001, p.153), che lo affiancò in quell’esperienza: “Per gli afghani esiste persino un equivalente della carta geografica nel corpo umano, nella mano: per spiegarvi la strada verso Herat e l’Iran, verso Mazar I Sharif e il Turkestan, un afghano, anche un ragazzino, chiuderà quattro dita sul palmo destro tenendo il pollice teso (corrispondente alla striscia territoriale a est, verso la Cina) e lì, sull’interno della propria mano rivolta verso l’interlocutore, traccerà la pista con l’indice sinistro, suggerendo tappe e distanze, in ore, mai in chilometri. Nelle famiglie delle ricamatrici ci si appassionava per le mappe di Alighiero, si ‘viaggiava’ ben oltre il solito Pakistan e altri confini conosciuti”.
Le mappe di Boetti, prodotte tra il 1979 e il 1992, oltre alla denuncia del sistema geopolitico contemporaneo, possono essere lette come il tentativo dell’essere umano di comprendere l’assurda astrazione di queste strutture al fine di riprendere in mano un destino che continua a sfuggirgli.

Questo atteggiamento può essere affiancato a quello di Luciano Fabro quando rappresentò l’Italia come uno stivale impiccato a testa in giù con un Sud che, nella morte del paese, diventa paradossalmente, anche soltanto per un attimo, Nord (Luciano Fabro, Italia rovesciata, 1968) e lo si ritrova anche nello speciale mappamondo, con uno specchio nel piedistallo, che permette di vedere meglio il lato Sud che, a causa della posizione del globo sul supporto, rischia sempre di rimanere poco visibile (Giulio Iacchetti, Odnom, 2008).

Ci sono molti artisti contemporanei che, invece, con i mappamondi hanno giocato, facendo emergere dalle loro forme, al di là dei continenti e dei mari che rappresentano, ciò che ritengono la loro essenza. Il belga Jan Fabre, ad esempio, che si dice nipote del celebre entomologo Jean-Henri Fabre, ha ricoperto un enorme globo con centinaia di verdi coleotteri di metallo e l’ha collocato nel foyer dei Musées Royaux des Beaux-Arts de Belgique a Bruxelles (Globe/The problem, 2001), preparandosi così la strada per quando, nel 2003, su invito della regina del Belgio, ha decorato la Sala degli specchi del Palazzo reale di Bruxelles con circa un milione di scarabei morti. Come in un film di fantascienza-horror gli insetti si impadroniscono del mondo.

mappamondo

Nella collezione del Centre Pompidou si trova un’installazione di Thomas Hirschhorn, Outgrowth (2005), che è una sorta di grande libreria lignea (374x644x46 cm) dove sono allineati 131 piccoli mappamondi di celluloide, formato scuola, rattoppati con delle “escrescenze” di scotch marrone collocate dove esistono dei problemi politici o sociali, segnalati a loro volta da foto appiccicate sulle assi che li sostengono. Le macchie marroni di quei bitorzoli, come dei tumori, appoggiati sul blu dei mari, il bianco di ghiacci o le varie sfumature di verde e marrone scuro, mischiate con le immagini di guerre, incendi e folle umane, danno la drammatica impressione di un ordine ormai impossibile, di una malinconica e precaria discarica.

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Invece David Byrne, artista e leader del gruppo musicale “Talking Heads”, creò il 15 settembre del 2011, un’installazione, chiamata Tight Spot, ficcando un enorme mappamondo gonfiabile sotto i piloni d’acciaio della High Line di New York (508 W 25th Street):

Mi ero accorto che il tipo di mappe che noi associamo con i giorni delle scuole elementari e dell’infanzia non era come mi aspettavo: una rappresentazione realistica del nostro pianeta o una mappa che mostra il mondo fisico. Questo mondo infantile sono tutti gli stati nazione, tutti in colori pastello con i nomi stampati, alcuni fiumi e alcune altre linee -l’Equatore, forse- ma non molto altro. Questo è il mappamondo col quale noi (o alcuni di noi) siamo cresciuti. Un mondo completamente irrealistico, un mondo alquanto arbitrario di unità politiche: non un pianeta di nuvole, profondi oceani blu, deserti beige e fasci di giungla verde. Comunque, il mio lavoro è su questa immagine infantile del nostro mondo strizzata sotto una linea della sopraelevata (in questo caso). Lo strizzamento di una cosa infantile oversize è una sorta di divertimento, non ha nulla di troppo metaforico. E’ una cosa infantile che è cresciuta fuori proporzione ed è stata ingabbiata. Da cosa? Dal mondo cresciuto delle linee ferroviarie, degli edifici d’abitazione, delle gallerie d’arte?

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Pur non avendo “nulla di troppo metaforico”, quel mappamondo di David Byrne, gonfiato fino a ostruire la strada sotto la linea ferroviaria, mette bene in luce i limiti della nostra rappresentazione del mondo. Limiti che sono emersi anche quando ci si è sforzati di rendere con estrema precisione cartografica alcuni luoghi. Come nel caso del bello e poetico volume dell’artista tedesca Judith Schalansky, Atlante delle isole remote (2009): cinquanta mappe di isolette “che non ho mai visitato e mai lo farò”. Isole quasi dimenticate. Alcune di esse sono così piccole e distanti dalla madrepatria da non venire nemmeno riportate sulle carte nazionali: come Fangataufa (isola disabitata della Polinesia francese), la napoleonica e britannica Sant’Elena, la statunitense Pagan. Si prova un senso di irrealtà sfogliando questo atlante. Ci si aspetterebbe di trovarci anche l’Isola di Utopia.

Infatti Oscar Wilde sosteneva che “una carta del mondo che non contiene il paese dell’Utopia non è degna nemmeno di uno sguardo”. Molti artisti, giocando con mappamondi e carte geografiche, hanno tentato di mostrarci questo paese che non sta in nessun luogo. Ci è riuscito particolarmente bene l’artista boemo Jiří Kolář, maestro del collage, che sminuzzava le mappe e le ricomponeva in un quadro dove monti, pianure, fiumi e mari si confondevano in modo surreale e i confini politici sparivano. Approfittando dell’atmosfera di “disgelo” e creatività che si respirava nella sua Praga negli anni sessanta, creò alcuni Globus: un mappamondo ricoperto da un indistinto patchwork di francobolli e cartamonete di ogni epoca e luogo, e quello, ancora più utopico, dove i mari e le nazioni erano costituiti da frammenti di colorati pentagrammi musicali punteggiati di note.

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Francesco Cataluccio

Ha studiato filosofia e letteratura a Firenze e Varsavia. Ha curato le opere di Witold Gombrowicz e Bruno Schulz. Dal 1989 ha lavorato nell’editoria e oggi si occupa della Fondazione GARIWO-Foresta dei Giusti. Tra le sue pubblicazioni: Immaturità. La malattia del nostro tempo (Einaudi 2004; nuova ed. ampliata: 2014); Vado a vedere se di là è meglio (Sellerio 2010); Che fine faranno i libri? (Nottetempo 2010); Chernobyl (Sellerio 2011); L’ambaradan delle quisquiglie (Sellerio 2012); La memoria degli Uffizi (Sellerio 2013); In occasione dell’epidemia (Edizioni Casagrande 2020); Non c’è nessuna Itaca. Viaggio in Lituania (Humboldt Books 2022).