Uno scrittore a parte: Gustaw Herling
Lo scrittore polacco-napoletano Gustaw Herling (1928-2000), maestro del racconto e della forma diaristica, era un uomo che non amava i compromessi. Un po’ per carattere, ma soprattutto per appartenenza a un gruppo di persone che, grazie a un granitico senso delle loro convinzioni e dell’onore cavalleresco, riuscirono tutto sommato a cavarsela nelle molte situazioni drammatiche che la vita riservò loro. La sua rigidità morale e politica venne spesso scambiata, a torto, per arroganza, mancanza di duttilità politica, intransigente attaccamento ai vecchi princìpi. Eppure nei suoi racconti e nel Diario scritto di notte, che molti tra i più belli ne contiene, Herling ha dimostrato di saper cogliere profondamente, e con grande sensibilità, le mille facce della vita, facendo propri i dubbi, le paure e le illusioni.
Il mio primo incontro con Herling, prima di diventargli amico, fu quando avevo quattordici anni e scovai casualmente, in una bancarella di libri usati vicino a Piazza San Marco a Firenze, una copia malmessa di Un mondo a parte (Inny Świat), nella maltrattata edizione laterziana del 1958. Come ricordò amaramente Herling: “Laterza, editore di Croce stampò Un mondo a parte controvoglia; quasi per un obbligo, diciamo così, familiare. Dubito persino che l’abbia distribuito, visto che, girando per le librerie italiane, allora non ne vidi mai una copia. Ciò detto, con le sole eccezioni di Paolo Milano e di Leo Valiani, quel libro fu ignorato del tutto. E lo stesso accadde nel ‘65 quando, per volontà del compianto Domenico Porzio, il libro uscì da Rizzoli. Nessuna reazione: solo un bell’articolo di Giancarlo Vigorelli e una recensione su Paese Sera (di Gianni Toti) in cui si suggeriva alle autorità italiane di espellermi dall’Italia”.
Quel libro sull’esperienza nel Gulag, uscito a Londra nel 1951, era indubbiamente troppo in “anticipo” sulla coscienza della maggioranza degli italiani: disinformati, illusi sulla bontà del sistema sovietico o convinti che, per ragioni politiche, fosse meglio tacere. Del resto, il suo rapporto con il mondo culturale italiano non fu, sin dall’inizio, facile: l’anno dopo essersi stabilito nel nostro paese, scoppiò la rivolta di Poznań e Arrigo Benedetti lo invitò a scrivere per il settimanale L’Espresso un articolo che poi rifiutò perché “poco obbiettivo” (vale a dire, nel linguaggio di allora, “troppo anticomunista”). Negli anni sessanta e settanta le sue opere furono attaccate e boicottate da molti intellettuali, non soltanto comunisti. Infatti la sua intransigenza morale e la ferma difesa degli ideali social-liberali risultava “aliena” alla politica culturale del Partito comunista, ma non lo rendeva anche facilmente utilizzabile per la propaganda della destra. Nelle cattedre di letteratura polacca, e nelle enciclopedie della letteratura, non si parlava di Herling per non “offendere” le autorità di Varsavia. Furono anni di silenzio, rotti soltanto dall’edizione, presso il piccolo editore Silva di Genova, dei racconti Pale d’altare (1967). Herling, che si considerava una sorta di “anticomunista socialista”, come Bertrand Russell, strinse una grande amicizia con Silone e con l’altro “eretico” Nicola Chiaromonte, che avevano dato vita al mensile Tempo Presente: una rivista modello di libertà di pensiero e mancanza di paraocchi ideologici. Herling collaborò attivamente con loro dal 1956 al 1968, con importanti articoli sull’Urss e l’Europa orientale. Inoltre scrisse sulle pagine de Il Mondo di Pannunzio, un’altra voce decisamente anticonformista nell’Italia degli anni sessanta.
L’atteggiamento della cultura italiana nei confronti di Herling cambiò dopo il 1989 (in parallelo con la diffusione e il successo delle sue opere in Polonia) quando alla Feltrinelli prendemmo a pubblicare le traduzioni dei suoi libri, iniziando proprio dalla ristampa di Un mondo a parte. Tra i pochi che, alla sua comparsa (nel 1958), capirono il valore di questo straordinario libro c’era stato lo scrittore Ignazio Silone, che scrisse: “I libri di polemica politica hanno vita effimera; essi durano quanto le circostanze della polemica; ma se un libro tocca il fondo della sofferenza umana, se esso la vede con occhi di pietà e la ritrae con i mezzi dell’arte, anche se la sua origine fu occasionale, essa certamente sopravvive ed entra a far parte del patrimonio spirituale che l’umanità si tramanda di generazione in generazione”. Silone colse perfettamente nel segno il senso di Un mondo a parte. Quando lo lessi, ero un giovane comunista che aveva appena letto e contraddittoriamente assimilato Una giornata di Ivan Denisovič di Aleksandr Solženicyn. Quel libro di Gustaw Herling, forse il suo capolavoro, fu per me non tanto il definitivo “smascheramento” dell’abisso totalitario del sistema sovietico, quanto l’apprendimento di uno sguardo diverso sul mondo e sul male. In uno stile asciutto, a volte quasi freddo, Herling narrava la sua discesa all’Inferno e la faticosa fuoriuscita da esso, come se la cosa non lo riguardasse direttamente, come se il dolore, il gelo, la fame, la paura, le umiliazioni non le avesse provate personalmente.
L’altro aspetto di questo “distacco”, e di una sorprendente obbiettività degna dei cronachisti medievali (ai quali lo scrittore polacco amava paragonarsi, a proposito del suo Diario scritto di notte), consiste nel fatto che Herling dimostra di conoscere e amare il mondo e la cultura russe e non cede mai alla tentazione, tipica di molti suoi connazionali, di identificare il potere russo e il regime sovietico come tutt’uno con la letteratura, la poesia, la musica e i costumi di quel popolo. Anche se ne ha viste e subite di tutti i colori, a causa loro, Herling non odia i russi, e neppure i suoi carcerieri. Come Etty Hillesum non la dà vinta ai suoi nemici, arrivando a odiarli. La sua coscienza morale va oltre la dialettica amico-nemico.
I valori in cui crede Herling sono di più alto rango e toccano la sfera della dignità personale, per questo non sono stati scalfiti delle esperienze del gulag. In proposito, Herling amava citare una frase di Varlam Šalamov, l’autore dei Racconti di Kolyma, che sosteneva che nel gulag resistevano e sopravvivevano di più coloro che avevano una coscienza religiosa e una fede. Herling non si piegò alla macchina stritolante dell’universo concentrazionario, perché aveva una solida coscienza morale, anche se non religiosa: non cattolica e nemmeno ebraica. Era, val la pena di ricordarlo, di origini ebraiche, anche se su questo aspetto preferì sempre mantenere, in pubblico, una certa riservatezza. Alla domanda se fosse ebreo, rispondeva sempre di esser polacco. Ewa Bienkowska e molti altri si sono scandalizzati per questa sua reticenza. Ma, come mi spiegò varie volte, il suo atteggiamento era dovuto al fatto di non aver vissuto di persona l’Olocausto e di non voler usurpare un ruolo non suo (quello dello scrittore ebreo sopravvissuto). Entrava in gioco però, in questa sorta di occultamento delle sue origini, anche il difficile rapporto col padre patriarca, e il trauma per la prematura scomparsa della madre, l’ebrea Dorota Bryczkowska (“Mia madre, che amavo molto, è morta giovane, aveva appena quarant’anni. Sono rimasto solo con mio padre, anch’egli ebreo e proprietario di un mulino a Kielce, e da allora hanno avuto inizio nella mia vita diverse traversie che hanno reso la mia giovinezza molto difficile”).
La fermezza morale di Herling, e il riaffiorare quasi casuale di queste questioni identitarie, si vedono bene nel finale di Un mondo a parte: quando, nel giugno 1945, a Roma, il suo ex-compagno di prigionia, un architetto ebreo-polacco, gli confessa di aver denunciato e quindi mandato a morte quattro loro compagni tedeschi, completamente innocenti, per poter esser traferito in un campo meno pesante. Vorrebbe che Herling gli dicesse “ti capisco”, ma lui si rifiuta addirittura di parlargli, lasciandolo solo col peso dei suoi rimorsi. Un altro esempio di questa intransigenza e attaccamento ai suoi valori di onore e dignità, che tornò spesso nelle nostre discussioni degli ultimi anni (ero sempre io che cocciutamente sollevavo il tema e lui rapidamente, con un certo fastidio, lo chiudeva), fu il suo rapporto con Witold Gombrowicz.
Herling da giovane, prima della guerra, lo ammirava e lo frequentava, assieme ad altri giovani aspiranti scrittori, al Caffè Zodiak di Varsavia. Proprio lì ricevette da lui, agli inizi di luglio del 1939, una confidenza sul fosco futuro della Polonia e sulla necessità di andarsene al più presto in America Latina ad “allevare tori”. Herling ha raccontato varie volte (ad esempio a Włodzimierz Bolecki, in Rozmowy w Dragonei, Conversazioni a Dragonei, Szpak, Warszawa 1997, pp. 327-329) che quella chiacchierata lo sconvolse, soprattutto perché lui, come la maggioranza dei polacchi, non si rendeva conto della catastrofe imminente. Ma, in realtà, il fatto che Gombrowicz effettivamente partì appena in tempo per l’Argentina (dove rimase 24 anni), risparmiandosi i drammi del suo popolo, fu considerato da Herling una sorta di cinico tradimento della Patria. Dopo la guerra, Herling inviò a Gombrowicz soltanto una lettera da Roma, nel 1946, nella quale gli proponeva di collaborare con la nuova rivista Kultura. Non fece più nulla per incontrarlo, anche quando Gombrowicz ormai abitava in Francia. Lo ammirava (ricambiato) ed era orgoglioso di aver potuto continuare (seppur con un atteggiamento del tutto diverso e meno individualistico) il “diario” sulle pagine di Kultura, a partire dal 1970, dopo che Gombrowicz era morto. Ma non volle più nessun rapporto, neppure epistolare. Una volta mi disse che Gombrowicz era “un dandy egogentrico senza coscienza politica e morale”.
Questa intransigenza, che Herling amava definire “spina dorsale dritta”, gli si ritorse contro nella parte finale della sua vita, quando proprio alcuni dei suoi più cari amici e compagni di tante battaglie gli sbatterono le porte in faccia. La rottura col gruppo di Kultura di Parigi, e soprattutto con il “direttore” Jerzy Giedroyc fu l’ultima grande sofferenza che gli riservò la vita, certamente nei suoi confronti non avara di lutti e dolori.
Herling e il gruppo che nel 1947 fondò la rivista Kultura, e la casa editrice a essa legata, avevano una forte storia comune: erano tutti reduci dalla prigionia in Unione Sovietica; avevano combattuto assieme i tedeschi nell’esercito anglo-polacco sotto la guida del generale Anders; avevano visto morire molti amici a Montecassino e in tanti altri campi di battaglia; avevano trascorso assieme il primo dopoguerra a Roma, ormai consapevoli di non poter tornare in patria. Le loro strade si erano divise per la prima volta quando la maggioranza di loro, temendo l’avvento del comunismo in Italia, e convinti di trovare condizioni più favorevoli per il proseguimento della loro attività politico-culturali, decise di trasferirsi a Parigi. Herling si stabilì invece a Londra con sua moglie, la pittrice Krystyna Domańska, che dopo pochi anni si tolse la vita. Ma i rapporti tra Herling e “quelli di Kultura” non si interruppero. Dalla metà degli anni cinquanta prese a recarsi ogni due mesi a Parigi dove lo aspettava la sua stanza presso Maisons Laffitte e il lavoro alla rivista Kultura e per la casa editrice. Con Jerzy Giedroyc, Zofia Hertz, Józef Czapski, Herling visse in una comunità creativa forse unica in Europa. Là poteva parlare in polacco, di politica e letteratura, al sicuro in un comunità ristretta di persone che sapevano tutto gli uni degli altri e si capivano (anche se spesso litigavano) al volo.
Quando nel 1989 cadde il Muro, Herling, sollecitato anche da molti inviti provenienti da svariate parti della Polonia, manifestò la voglia di tornare a far visita al suo paese. Si imbattè nell’inaspettata (ma forse prevedibile) intransigenza e diffidenza dei suoi compagni di Kultura, che guardavano con sospetto alla possibilità di confrontarsi con coloro che, in patria, avevano cessato di essere cittadini comunisti. Giedroyc, che pure aveva appoggiato, attivamente e con convinzione, il movimento di opposizione laica e poi il sindacato “Solidarność”, sostenne che andare in Polonia sarebbe stato interpretato come un loro avvallo a una trasformazione della quale non si intuivano ancora bene i contorni e si intravedevano le contraddizioni. Herling “disobbedì” e andò a prendersi i meritati frutti del suo successo letterario e della crescente popolarità. Tornò così, dopo cinquant’anni, dall’8 al 13 maggio del 1991, a visitare la sua patria e Kielce, la sua città natale. Fu un trionfo che gli fece indubbiamente bene e lo ripagò un po’ delle tante amarezze e frustrazioni dell’esilio, bandito e censurato come scrittore nella sua madrepatria.
Ma le cose si evolvettero molto rapidamente, e non nel senso che Herling avrebbe auspicato. Poco tempo dopo, avendo Herling scritto un testo molto critico verso i nuovi dirigenti polacchi (tra i quali spiccava lo storico, suo e mio amico, Adam Michnik) si vide censurare dalla rivista che aveva contribuito a fondare e alla quale aveva sempre collaborato. Kultura rifiutò di pubblicarlo per “gravi divergenze politiche”. Non fu possibile nessun compromesso e la rottura fu definitiva. Con tutto il rispetto che si deve a delle persone che, al prezzo di grandi sacrifici, hanno salvato la cultura e la dignità intellettuale della Polonia, durante gli anni del comunismo, bisogna riconoscere che il trattamento che fu riservato a Herling ricorda per certi versi quello che si usava nei partiti comunisti: lo esclusero in un batter d’occhio e lo emarginarono. “Mi trattano come un’appestato, ma per nulla al mondo vorrei scontrarmi con loro”, fu il suo amaro commento. E non volle parlarne più.