Permanenze
La mia radiosveglia è sintonizzata sulla radio più popolare della città, alle sette in punto, quando inizia il notiziario breve. Ieri, la signora che fa le pulizie a casa nostra deve aver toccato inavvertitamente la rotella dei programmi. Così, stamattina, mi ha svegliato una musichetta celestiale e un coro che cantava: “Benvenuto in cielo, qui in mezzo agli angeli…”. Per un attimo ho pensato di esser davvero trapassato nell’Aldilà e che fosse molto peggio di come me l’ero immaginato. Riavutomi dal trauma, e presa coscienza di cosa potesse esser accaduto, mi son precipitato ad armeggiare con le manopole dell’apparecchio per sopprimere l’emissione dei bigotti programmi della stazione radio limitrofa alla mia. Le notizie tremende del mondo mi hanno riportato, quasi con sollievo, con i piedi per terra, dandomi la certezza di esser ancor vivo. Ma poi, bevendomi il solito schifoso primo caffè del mattino, ho rimuginato sulle sopravvivenze: quello stato incerto che ci fa pensare che la morte non sia del tutto accaduta. Infatti, delle persone che se ne sono andate, spesso rimangono delle permanenze molto concrete che tornano a noi in modi apparentemente casuali.
Dopo parecchi mesi che era deceduta mia madre, tornato la sera a casa dal lavoro, accesi, come d’abitudine, la segreteria telefonica per riascoltare i messaggi. Poiché i primi erano, come quasi tutti, senza alcun interesse, andai dall’altra parte della casa dimenticando di riavvolgere il nastro e di spegnerla. Passò una mezz’ora. Quando tornai nell’ingresso, l’apparecchio stava ancora funzionando e sentii la voce della mamma che, come sempre incredula della mia assenza, mi stava ripetutamente chiamando e implorando di risponderle. Erano passati una quarantina di giorni da quel messaggio: lei stava ancora bene e nulla avrebbe fatto immaginare, nemmeno dalla voce, che si sarebbe spenta improvvisamente.
Del babbo invece la permanenza vicino a me è meno casuale ed effimera. Direi che è qualcosa di continuo. È legata all’odore della nicotina. Nostro padre era un accanito fumatore. Iniziò durante la guerra, in Macedonia (dove, al contrario di tutto il resto, il tabacco e le sigarette non mancavano). Raccontava che gliele consigliarono dei commilitoni più anziani “per farsi una barriera contro le malattie”: dicevano che la nicotina bloccasse l’ingresso dei germi… Quando poi, facendo il partigiano nelle valli bergamesche, passò l’ultima notte a parlare in tedesco con un nemico, che avevano condannato a morte e fucilarono all’alba, di cosa si dissero non volle mai ricordare nulla, ma, raccontando quell’episodio, rivide sempre quelle dense volute di fumo delle sigarette che li avvolgevano in un’atmosfera tragicamente surreale. Poi, per tante ragioni non smise più di fumare. Anzi, incrementò con gli anni il numero delle sigarette consumate. Dopo il matrimonio, i fatti d’Ungheria e la mia rapida nascita, toccò il livello massimo: sessantacinque sigarette al giorno. In quegli anni fumava le Senior Service con il buffo marinaio disegnato sul pacchetto e il prezioso imballaggio in carta stagnola che con mio fratello ci contendevamo.
Aveva una sigaretta sempre accesa: la prima se la fumava, all’alba, incorniciata dalla schiuma del sapone da barba, radendosi e canticchiando scompostamente arie d’opera. Addirittura, alcune volte, se la mamma non lo sgridava (non poteva sempre farlo per non rovinare l’atmosfera del desco famigliare!), il babbo alternava una tirata di sigaretta a una forchettata di cibo. Quell’odore lo caratterizzò fortemente: almeno al mio naso. Quando entravo nell’ascensore, per raggiungere la nostra abitazione al quinto piano, indovinavo subito, con sicurezza, se lui fosse tornato oppure no. Il suo olezzo nicotinoso lasciava un’inconfondibile traccia. Oggi, che la gente fuma meno, e lui da molti anni non c’è più, mi basta una vampata di fumo per riassaporare il sentore di mio padre.