Pensieri sulle mani
Gli anonimi cavernicoli che, circa 17.500 anni fa, affrescarono con il racconto della loro vita, dei loro sogni e delle loro paure, il cunicolo attorcigliato delle grotte in località Lascaux, appoggiarono, tra l’altro, sulle pareti le loro mani lasciando decine di impronte colorate, che paiono muoversi. Quelle figure stabiliscono quella che lo storico dell’arte Georges Didi-Huberman ha definito, nel suo omonimo libro, la “somiglianza per contatto” (La ressemblance par contact, 2008). Gli “artisti delle grotte di Lescaux”, infatti, non dipinsero le mani, ma lasciarono un’impronta, produssero un segno attraverso la pressione di un corpo su una superficie. Molte di quelle impronte sono uguali per dimensioni, il che fa supporre che gli “stampi” spesso siano gli stessi, anche se i colori sono diversi (ma, come scrisse Marcel Duchamp nel 1937: “Due forme nate dallo stesso stampo non sono identiche, differiscono per un valore separativo infrasottile”).
Quella selva di mani di vari colori che si affiancano e, a volte, sovrappongono, come piante di una foresta tendenti verso il cielo, sono il primo capolavoro dell’espressione artistica dell’umanità, sono la nostra “origine”. Quei primitivi sono sopravvissuti grazie alle impronte delle loro mani. E questa è già Arte.
Nella Storia dell’Arte, spesso, grazie alle mani, si può cogliere il messaggio più profondo del pittore. Ne sono convinto: forse perché sono stato abituato sin da piccolo a iniziare a guardare i dipinti sempre dalle mani, cercando di interpretare i gesti delle dita. La posizione delle dita chiarisce il tono e il significato di tutto un quadro. Nei ritratti, le mani sono quasi sempre al centro del dipinto, come un sole che concentra su di sé le cose che gli stanno intorno, compreso il volto. Le mani dicono tutto. A volte ho preso questi consigli alla lettera e ho fatto la fortuna delle chiromanti. È per questa mia predilezione che sono rimasto entusiasta quando mi sono trovato, a Toledo, di fronte a Il funerale del Conte di Orgaz (1586-1588) di El Greco, con tutte quelle mani fluttuanti, sullo sfondo delle vesti nere, come colombe impazzite. Aveva ragione la scrittrice Anna Maria Ortese quando sosteneva che fosse uno dei più bei quadri mai dipinti: il “capolovaro delle mani”. Nei dipinti più antichi a tema religioso, e soprattutto nelle icone, ogni gesto della mano, e posizione del dito, significa qualcosa di diverso e molto importante
Il grande filosofo e scienziato russo, studioso delle icone, Pavel Florenskij, in un geniale testo sulla tecnica come proiezione degli organi, Organoproekzia (Organo-Proiezione 1922), sostenne che la mano, sia come superficie, sia dal modo di afferrare le cose con le dita o di stringere, è la madre di tutti gli attrezzi, proprio come il tatto è la madre di tutti i sensi. Le mani sono il prototipo della maggior parte dei nostri attrezzi: “La tavola da stiro, il ferro da stiro, le macchine per levigare e lucidare il legno, il metallo, il vetro, la pietra, incluse le macchine per tagliare i brillanti ed i congegni capaci di lucidare le lenti ottiche, tutto questo è un palmo di mano, a volte piegato, a volte raddrizzato, a volte ingrandito a dismisura, oppure, al contrario, molto ristretto, o indurito, o ammorbidito, una mano a cui si attribuisce maggior concretezza e continuità di movimento di quanto sia concesso ad un palmo di mano organico, o una libertà di movimento maggiore di una mano vera. Una mano organica è capace di compiere tante azioni, perciò nessuna alla perfezione. Ma qualche volta, a causa di certi mestieri, il palmo della mano acquista caratteristiche diverse diventando o più ruvido o più elastico e cosi via. Negli attrezzi che abbiamo citato e che proiettano il palmo della mano, ne vengono stilizzate alcune caratteristiche, e attenuate altre; allora il palmo della mano perde la sua varia funzionalità e, di conseguenza, proiettato tutto sulla funzione prescelta, produce questo o quell’altro strumento, ferro da stiro o lucidatura”.
Le mani rappresentano nello stesso tempo l’unità e la diversità. Ogni mano è composta da cinque dita tutte diverse, per forma e lunghezza, che trovano, una sorta di sintesi nel palmo, che poi si restringe nel polso e nel braccio. Le dita, a volte, sembrano andare ciascuna per conto proprio. Quando si osserva un pianista che percorre rapidamente i tasti del suo strumento, sembra quasi impossibile credere che quelle dita scatenate facciano parte di una stessa mano e che non stiano per staccarsene da un momento all’altro per andare ciascuna per conto proprio.
Il pittore e disegnatore Tullio Pericoli, in un recente, interessantissimo, libretto pubblicato da Adelphi (Pensieri della mano, conversazione con Domenico Rea) riflette sull’autonomia della mano che disegna, un’autonomia che si esprime in un modo tutt’altro che casuale: “Vedo affiorare un metodo, il metodo della mia mano, di cui non sapevo niente. Non ne sospettavo nemmeno l’esistenza. Allora mi accorgo che la mano non agisce per puro istinto, che il gesto casuale, puro, non esiste. Che nella mano c’è una sapienza, e insieme, a volte, il peso della sapienza”. La mano, per Pericoli, è una “macchina bella e perfetta” che riesce ancora a stupirci per la ricchezza dele sue capacità e per la meraviglia dei suoi congegni.
Le mani aiutano a rafforzare il messaggio di artisti e progettisti. L’architetto Frank Lloyd Wright, fotografato mentre parla, sembra montare, con i gesti delle sue mani, delle costruzioni, mentre le dita mimano le torsioni degli edifici; Le Corbusier invece usa la mano aperta per dare un segno forte al Campidoglio di Chandigarh; Santiago Calatrava studia l’intreccio delle mani per ideare un ponte; Bruce Nauman le unisce in quindici, plastiche, combinazioni di figure; Maurits Cornelis Escher le immagina uscire da un foglio e disegnarsi a vicenda (quale rappresentazione più efficace dell’autoreferenzialità del disegno!).
Nella comunicazione invece, le dita lanciano il messaggio lontano. Soprattutto l’indice, che ci invita a guardare altrove. San Giovanni Battista (1508-1513) di Leonardo da Vinci, conservato al Museo del Louvre, ha un’espressione ambigua e con l’indice punta decisamente verso il cielo. E anche l’enorme dito in marmo bianco di Carrara (Dito medio) che l’ironico Maurizio Cattelan ha posto davanti al Palazzo della Borsa (costruito nel 1930 dall’architetto Paolo Mezzanotte), in Piazza Affari, a Milano, vorrebbe indicare qualcosa, ma è piuttosto il superstite di una mano con le dita troncate, che non può nemmeno significare quel gestaccio che spesso, nei film, ma anche ai semafori delle nostre città, la gente maleducata si scambia. La statua di Cattelan ricorda il colosso di Costantino, l’Acrolito, conservato in frammenti nel cortile del Palazzo dei Conservatori nel Campidoglio, a Roma. Il dito (in questo caso il medio) è l’ultima scheggia della statua dell’Imperatore in trono che misurava dodici metri in altezza. Il dito ritto, più che un monito a non perdere di vista ciò che è superiore o un insulto, è quindi solo una patetica manifestazione di trionfo, come quando lo usano certi calciatori dopo aver segnato un goal. Sarebbe sempre consigliabile tenersi le mani in tasca, consigliava mia nonna, anche se, magari, a volte, a forma di pugno.