Libri e malattie
Una cosa che mi hanno insegnato, per sempre, i fratelli, entrambi medici, dei miei genitori, è che le malattie vanno assecondate e, salvo i casi più gravi, lasciate libere di fare il loro corso, senza scorciatoie e dosi massicce di farmaci. Così, quando da ragazzi la febbre si impossessava di noi, ci dovevamo disporre con pazienza a un lungo periodo di letto e riposo. Non possedendo la televisione, ma avendo tutte le pareti di casa foderate di libri, la lettura fu l’antidoto migliore contro la noia e l’esasperantemente lento trascorrere del tempo. E lo è, per me, ancor oggi.
Come, da bambini, dopo una malattia, ci si scopre fisicamente cresciuti (non sono stato un ragazzo sano: infatti sono alto un metro e novantuno), così, dopo la lettura di un grosso libro, la nostra personalità si allarga e approfondisce. A nove anni mi ammalai gravemente e dovetti sopportare una lunga convalescenza. Passata l’emergenza sopravvenne la noia. Non potevo alzarmi dal letto ed ero debolissimo. Così, alle quattro del pomeriggio, mio padre prese a rincasare anticipatamente e a leggermi a puntate il Don Chisciotte. Quello fu probabilmente il mio battesimo con la letteratura e la vita. Era anzitutto piacevole che quel severo papà, sempre con il naso immerso in libri e giornali, si dedicasse per metà pomeriggio a leggermi un libro. Era un lettore caldo e appassionato. Gli piaceva raccontare e vedere sul mio volto le reazioni. Si sentiva che i suoi antenati siciliani avevano avuto familiarità, tra pupi e carretti, con le storie dei cavalieri antichi. Parteggiava apertamente per il cavaliere della Mancia e dedicava a Sancho Panza una voce tignosetta, decisamente antipatica. Amava e si identificava con Don Chisciotte. Il ritorno del reale era anche per lui sempre fonte di tristezza.
Così, da piccolo, ho scoperto che ci sono dei libri che possono essere veramente letti e gustati soltanto se si ha un lungo tempo a disposizione, senza eccessive interruzioni. Leggere, ad esempio, Alla ricerca del tempo perduto, qualche pagina ogni tanto e con lunghe pause tra un libro e l’altro, significa condannarsi a un’incomprensione profonda del libro. Lo lessi tutto in una settimana dopo l’esame di maturità, quando per la prima volta fui bloccato da ripetuti capogiri e frequenti svenimenti, forse causati dello stress per il troppo studio. Alla fine fui, quasi naturalmente, portato a pensare che la guarigione fosse dovuta a quello splendido libro.
La cosa un po’ spiacevole però è che così molti libroni rimangono attaccati, nel ricordo, a una malattia, come certe canzonette a un amore tormentato. A volte viene il sospetto che il nostro giudizio su un libro sia irrimediabilmente viziato, anche se ne siamo consapevoli, da certe sensazioni legate alla precarietà della nostra salute. Sicuramente, per me, fu cosi con Madame Bovary, che lessi a quindici anni (nella traduzione dell’ipocondriaco Oreste Del Buono) durante una crisi d’asma. È un libro che amo molto, anche se dubito che Flaubert apprezzerebbe la mia decisa simpatia per il marito Charles, condivisa da Jean Améry, che a lui dedicò un libro straziante (Charles Bovary medico di campagna. Ritratto di un uomo semplice, Bollati Boringhieri 2000). Però anche le successive riletture non sono riuscite a cancellare del tutto quell’appiccicoso senso di malattia che pervade quella storia e che mi perseguita da allora. Lo dissi a Gianfranco Contini, che mi esaminava, nell’ottobre del 1975, proprio su quel romanzo (da me inopitamente scelto, ma che anche lui, mi confessò, apprezzava particolarmente) che si mise a ridere affermando: «Lei diventerà un seguace del farmacista Homais».
I grandi russi dell’Ottocento hanno avuto bisogno di diverse bronchiti per essere letti e assimilati. Azzarderei a dire che Tolstoj, in particoalre, è una vera medicina: devi prenderti molto tempo per seguire i suoi personaggi e gli intrecci delle loro storie, e così facendo ti perdi e ti allontani dal letto dove stai sdraiato. Quel lungo tempo di lettura vola e ti spiazza: sembra veramente di essere finiti in Russia, anche se non ci si è mai stati (e quando poi ci vai, non la riconosci). La Russia è una malattia: Dostoevskij è quello che l’ha rappresentata meglio di tutti. Mai leggersi (potrebbe risultare fatale!), a letto con la febbre e i dolori, le sue Memorie del sottosuolo: «Io sono un uomo malato… un uomo cattivo. In me non c’è niente di attraente…». Invece: Gogol’, Tolstoj, Cechov, Mandel’stam, Cvetaeva, Bulgakov, Babel’, Erofeev, Grossman, Brodskij sono la loro, e la nostra, migliore medicina. Per farmi passare la noia della lunga convalescenza, dopo un’operazione per una brutta peritonite, mi ha fatto, ad esempio, compagnia, ridandomi il senso della vita, Il dono, il corposo capolavoro di Vladimir Nabokov.
L’elenco sarebbe lungo e, scendere nei dettagli di malattie e libroni letti, potrebbe essere inopportuno. Ma, prima di concludere, non vorrei tralasciare di raccontare come lessi, e grandemente apprezzai, L’uomo senza qualità di Robert Musil: libro dalla struttura assai complessa e piuttosto impegnativo (l’edizione italiana, Einaudi, molto ben tradotta da Anita Rho, consta di 1115 pagine). Mi ficcai i due volumi, quasi senza pensarci, nello zaino prima di imbarcarmi su un grosso cargo, che faceva la rotta Danzica-Helsinki, per andare a trovare una biondissima finlandese, della quale mi ero perdutamente innamorato. Päivi studiava Musil, considerandolo quasi un fratello: mi chiamava (i finnici hanno uno scarso senso dell’umorismo) il «suo uomo senza qualità» e, altre volte, ricorrendo a Thomas Mann, sbrigativamente: «Felix Krull». Quando, alla mezzanotte di un gennaio particolarmente freddo, la nave si mosse, fendendo rumorosamente il ghiaccio che attanagliava i bassi fondali del porto, avevo già la febbre alta e, impossibilitato a prender sonno (anche a causa dei camionisti della cabina accanto che se la spassavano con un paio di sguaiate prostitute), mi raggomitolai sotto il piumone, cavai dallo zaino il primo volume e, alla luce fioca di una lampadina ingiallita, iniziai a leggere: «Sull’Atlantico un minimo barometrico avanzava in direzione orientale incontro a un massimo incombente sulla Russia, e non mostrava per il momento alcuna tendenza a schivarlo spostandosi verso nord…».
I due giorni di navigazione volarono in un battibaleno e la febbre si allontanò da me senza che me ne accorgessi. Assorbii così, tutto di un fiato, il capolavoro di Musil. La finlandese, che mi attendeva al porto, ne rimase molto stupita e commentò malignamente: «Forse voi, pigri italiani, lo avete pubblicato in una versione ridotta». Fossi stato veramente sano, e avessi fatto tesoro degli insegnamenti di Agathe, avrei dovuto risalire subito a bordo di quella nave, che si chiamava «Chrobry» (Valoroso).