Lavoro e/o morte
Martedì 7 gennaio il Consiglio regionale della Lombardia ha approvato (con 45 voti favorevoli e 27 contrari) un provvedimento, proposto dalla Lega, per “facilitare l’esportazione delle armi lombarde nel mondo”. La cosa in sé non avrebbe suscitato grande clamore (da tempo, appena ci si distrae un attimo, passano leggi e decreti inutili o dannosi) se non fosse che il consigliere regionale del PD bresciano Corrado Tomasi ha votato, unico del suo partito, a favore del provvedimento della destra. Tomasi si è giustificato sostenendo che ne andava del lavoro di tanti operai e artigiani del suo bacino elettorale: «Ho sostenuto questa mozione perché il contrasto alla burocrazia è uno dei grandi problemi di questo Paese e per aiutare un settore di eccellenza fatto di artigiani e di piccole imprese che fabbricano armi che vengono utilizzate solo alle Olimpiadi».
Attorno a Brescia, come in altre parti d’Italia, non si fabbricano purtroppo solo «armi per le Olimpiadi», ma, ogni anno, centinaia di macchine di morte, estremamente sofisticate dal punto di vista tecnologico. Persino i sussidiari delle elementari non mancano di informare i bambini che Brescia campa soprattutto grazie ai tondini di ferro e alle armi.
Tantissimi anni fa (eravamo negli anni Settanta) presi, in un una piovosa e fredda mattinata di primavera, uno sgangherato pullman, addobbato di bandiere rosse, diretto a Brescia per una manifestazione nazionale della sinistra extraparlamentare contro le fabbriche di armi. Quando giungemmo a Castenendolo, a una decina di chilometri dal centro, davanti a delle fabbriche dall’aspetto assai tetro, un gruppo nutrito di operai che ci stava evidentemente aspettando impaziente cominciò a insultarci. Alcuni sindacalisti ci assalirono a male parole, accusandoci di essere dei figli di papà che in nome di bei principi volevano togliere il lavoro e il sostentamento a tante famiglie. Uno di loro ci disse che gli operai nemmeno sapevano dove le armi andassero e che comunque «se, una volta vendute, venivano male utilizzate non era certo colpa loro». Quello, ci spiegarono, era un onesto lavoro, come quello di qualsiasi altro operaio metalmeccanico. La discussione degenerò quando Pippo, un focoso compagno di Bologna, poco aduso a sottigliezze dialettiche, gridò: «Se il guadagno del pane giustifica tutto, allora anche un killer è un lavoratore che si becca uno stipendio!». Fu inseguito con un lungo “tubo Innocenti” arrugginito.
Quel triste episodio mi torna sempre in mente quando vengono fuori questioni dove il lavoro e la salute entrano in conflitto: come, ad esempio, nella vicenda dell’Ilva di Taranto, dove delle malattie della popolazione pare importare poco a quasi tutti. Nel caso di Brescia però l’alternativa è tra lavoro e morte. C’è da chiedersi se sia lecito guadagnare il pane costruendo degli oggetti di morte, in particolare le armi da guerra. Certo, per me è facile parlare: ho la fortuna infatti di potermi guadagnare da vivere senza dover affrontare, col mio lavoro, laceranti dilemmi morali. Ma si dimentica spesso, ad esempio, che fino al 1994 l’Italia è stata una delle maggiori produttrici di “mine antiuomo” (il nome qui non lascia spazio a scappatoie sofistiche). Quanta gente ha lavorato, e in parte lavora ancora, in quelle industrie, facendo finta di non sapere che cosa costruisce. E, se ne prendesse coscienza, rinuncerebbe al proprio lavoro?
In un periodo in cui la disoccupazione cresce è pensabile che si chiudano o non si “favoriscono” industrie che continuano a fare ottimi affari portando la morte nel mondo? Ma è concepibile che, in nome del lavoro e del salario, si producano e vendono armi o si chiudano gli occhi davanti a lavorazioni e produzioni altamente nocive per chi le fa e anche per la popolazione?