Il dolore di Gadda
Confesso, con un po’ di imbarazzo, che quest’estate ho letto soltanto un libro. Ma neanche: un opuscoletto. Mi ero riempito, come sempre, la valigia di volumoni, accumulatisi durante l’anno, e di buone intenzioni. E, invece, ho letto il primo, il più piccolo, e lì mi son fermato.
La morte di Gadda (Nottetempo 2013) di Ludovica Ripa di Meana l’avevo tirato su alla cassa della mia libreria, quasi per caso, all’ultimo momento. Ludovica Ripa di Meana è una brava scrittrice e poetessa, profonda scrutatrice dell’altrui animo. Mi era molto piaciuta la sua conversazione con Gianfranco Contini (Diligenza e voluttà. Ludovica Ripa di Meana interroga Gianfranco Contini, Longanesi, Milano 1989) e soprattutto il romanzo Marzio e Marta (il Saggiatore, Milano 2000), con la vicenda di un anziano professore di storia dell’arte (Marzio), còlto e infido, in punto di morte a causa di un collasso, la cui figlia (Marta) ripercorre in modo impietoso la sua vita spregiudicata, mostrando come avesse avvelenato coloro che gli eran stati vicini. Quell’anziano professore di storia dell’arte mi aveva fatto per altro ricordare Federico Zeri (con il quale, per altro, Ripa di Meana aveva fatto un libro, rielaborazione di alcuni sue lezioni di storia dell’arte: Federico Zeri, Dietro l’immagine. Conversazioni sull’arte di leggere l’arte, Longanesi, Milano 1987), uomo e studioso geniale ma cattivissimo.
Ludovica Ripa di Meana, assieme allo studioso recentemente scomparso Giancarlo Roscioni, realizzò per la rubrica del secondo canale della televisione, “Sulla scena della vita”, un’importante intervista a Carlo Emilio Gadda, che fu trasmessa il 5 maggio 1972 (una versione ridotta dell’intervista è stata edita in videocassetta nel documentario Gadda racconta Gadda, a cura di Mauro Bersani e Maria Paola Orlandini, regia di Antonella Zecchini, Rai Educational, 2003, allegato al volume di Mauro Bersani, Gadda. La vita e le opere, Einaudi, Torino 2003). In quell’occasione si guadagnò «una consuetudine naturale e quasi familiare» con Gadda, e continuò così ad andarlo a trovare nella sua abitazione in via Blumenstihl 19, a Roma. Gli leggeva ad alta voce i suoi libri, come per ricordargli il grande scrittore che era stato, e gli teneva un po’ di compagnia.
Il libretto La morte di Gadda contiene la rielaborazione di alcuni appunti e frammenti di ricordi e sensazioni, apparentemente slegati tra loro, presi durante quelle visite, che iniziano il 5 febbraio del 1973 e terminano con un’annotazione, del primo gennaio 1974, relativa al 21 maggio 1973. Son poche paginette, che si leggono in mezz’ora. Ma poi si rimasticano per giorni, ruminando un disagio profondo e il senso di tristezza infinita per un’intrusione indebita nella vita (seppur alla fine) di un uomo malato e stanco.
Sono raccontati, spesso in modo confuso e imbarazzato, gli ultimi giorni di Gadda, che se ne sta seduto in poltrona in vestaglia e con un plaid sulle ginocchia. Lo accudisce Giuseppina, la sua badante napoletana, di solito in tenuta pigiama rosso acceso e calzerotti di lana. Tra lo scrittore e la donna sembra esserci lo stesso rapporto che si è instaurato tra i due protagonisti di Finale di partita (1956) di Samuel Beckett: Gadda è Hamm e Giuseppina è Clov. Tra loro c’è una reciproca dipendenza che sfiora sovente la crudeltà, e i ruoli di “carnefice” e “vittima” si scambiano in continuazione.
Dice Giuseppina: «L’ingegnere oggi ha le madonne, povero cocco! È da stamattina che mi dice certe parole… un po’ grassette», «(…) Lo dico, che belle paroline mi dice?», «Troia, mi ha chiamata. Brutta troia».
Gadda appare a Ripa di Meana, che afferma di «amarlo infinitamente», in tutta la sua penosa decadenza, fisica e mentale: «Ora il grande corpo di G* è in diagonale, con la testa appoggiata alla spalliera, la bocca semiaperta. Intorno al viso un tovagliolo con qualche macchia di sugo e di uovo, gli occhi aperti a metà: biascica spaghetti e piange. Clown desolato, inondato di luce». Un clown afflosciato e involontariamente ridicolo, come sono appunto i personaggi di Beckett.
Nell’ultima pagina, la descrizione dell’attimo della morte è agghiacciante: «Un terribile nitrito mentre il corpo, spinto animalmente dalle braccia, si stira dentro una lunghezza atroce, abnorme. Di colpo, si ritrae: le braccia hanno tirato le redini a sé. G* ha tirato le cuoia. La misura è tornata misura». Questa insistenza su «tirare», «ritrarre», «stirare» dà il ritmo del movimento finale in una sequenza che toglie anche al lettore il fiato.
C’era bisogno di questa intrusione negli ultimi, penosi, giorni di vita di Gadda? Sappiamo ora qualcosa di più di lui che ci aiuterà a decifrare meglio i suoi capolavori? Queste pagine (seppur scritte forse con le migliori intenzioni) mi sono sembrate una, non autorizzata, mancanza di rispetto. Mi son chiesto per giorni e giorni se la loro efficacia letteraria me le avesse appiccicate addosso, o se, invece, avessi, grazie ad esse, guardato qualcosa che non si deve guardare. Ho sentito, forse per la prima volta così dolorosamente, quanto la Morte sia un fatto penoso, che andrebbe vissuto lontano da tutti, come fanno i vecchi eschimesi che, quando sentono che è arrivata la loro ora, vanno, o si fanno portare e lasciare, il più lontano possibile sul pack. Certamente non vorrei avere una cronachista che annota le mie miserie, i miei pianti, la bava che mi cola dalla bocca e, persino, l’ultimo fremito di vita del mio corpo!
Per dimenticare questo libretto ho dovuto fare molte nuotate, quand’ero in Francia, e poi lunghe passeggiate solitarie, all’alba, per le calli di Venezia, ispirando a pieni polmoni l’aria marcetta della laguna e concentrandomi su quella straordinaria luce che mitiga lo spettacolo delle belle pietre corrose dalla salsedine. Intanto, bel risultato!, per un po’ non rileggerò Gadda: non voglio che tra la sua straordinaria lingua e me lettore si frapponga il ricordo amaro di quella sua fine.