La Chiesa polacca alla vigilia del Conclave
Nell’ultima udienza di mercoledì 27 febbraio, Joseph Ratzinger, facendo una specie di bilancio del suo pontificato, ha espresso un concetto molto forte: «Ci sono stati anche momenti in cui le acque erano agitate e il vento contrario, come in tutta la storia della Chiesa, e il Signore sembrava dormire». Nella sua discussa visita al campo di sterminio di Auschwitz-Birkenau, il 28 maggio del 2006 (a molti commentatori e soprattutto ai polacchi era sembrato che avesse minimizzato le colpe del popolo tedesco, ascrivendole tutte a una banda di folli assassini), Benedetto XVI si era chiesto «dov’era Dio?» e poi aveva rivolto direttamente con la domanda: «Perché, Signore, hai taciuto? Perché hai potuto tollerare tutto questo?». Un Dio che tace, un Dio che sembra dormire. Queste sono le grandi questioni con le quali l’anziano Joseph Ratzinger ha dovuto confrontarsi, prima di decidere di abbandonare il suo gravoso compito.
Colpisce il fatto che il dramma e il gesto inconsueto del Papa non siano stati compresi dall’opinione pubblica polacca, e anche dall’Episcopato polacco. Il giudizio più severo sulle dimissioni di Benedetto XVI è stato espresso infatti “a caldo” dall’Arcivescovo di Carcovia Stanisław Dziwisz (ex segretario di Karol Wojtyła): «Dalla croce non si scende, Wojtyła restò». Sarebbe troppo semplicistico spiegare questo atteggiamento dei polacchi, come hanno fatto molti giornali italiani, con questioni di “rivalità” e di “nazionalità”. C’è dietro una storia complicata che val la pena di ricordare alla vigilia del Conclave e tornare a chiedersi se molte altre volte «Dio non sembrasse dormire».
Nel 1978, un intelligente trentottenne prete di Lublino, padre Stanislaw Wielgus, si recò a Monaco per perfezionare i suoi studi in teologia. Là fu seguito da un professore che poi fece carriera, che si chiamava Ratzinger. Wielgus collaborava dagli inizi degli anni sessanta con la polizia segreta (SB). «Un collaboratore volontario e segreto», secondo il settimanale di destra Gazeta Polka. Ma siamo nel campo delle supposizioni. Sicuramente, stando ai documenti conservati nell’Istituto per la Memoria Nazionale (IPN), mandò dei rapporti tra il 1973 e il 1978, usando nomi in codice come Adam Wysocki e Grey. Cosa poteva aver spinto un promettente prete a collaborare con la polizia segreta e a continuare a farlo quando dirigeva una delle più importanti università cattoliche d’Europa, quella di Lublino? Nient’altro che il ricatto. Probabilmente compromettenti foto sessuali. Lo tenevano in pugno, minacciando di screditarlo pubblicamente. Questo spiega perchè fino all’ultimo Wielgus ha esitato a confessare e questo spiega anche perché il Vaticano, fino all’ultimo, lo abbia appoggiato. Benedetto XVI lo conosceva bene, si fidava di lui ed aveva accettato ben volentieri la candidatura che gli era giunta da Varsavia. Gli sarà sembrato impossibile che il suo studente potesse essere stato per lungo tempo un agente del nemico.
Ma la Chiesa polacca è sempre stata, da dopo la tragedia del secondo conflitto mondiale, in prima linea. Tradizionalmente, assieme alla lingua e alla letteratura, è da tre secoli garante dell’unità nazionale di un paese continuamente attaccato e smembrato da potenti vicini (tra l’altro di confessioni religiose diverse). «Le chiese- disse più volte il poeta premio Nobel Czeslaw Milosz – sono state l’unico luogo dove si potevano ascoltare parole di verità e tolleranza». Non proprio sempre, però. Soprattutto nei primi anni del dopoguerra, i preti polacchi e le autorità ecclesiastiche stentarono abbastanza a prendere le misure con la nuova realtà imposta della leggi della geopolitica e si rifugiarono spesso nell’antisemitismo come strumento di lotta col comunismo.
D’altra parte, i sovietici e i nuovi governanti polacchi, da loro imposti con l’esercito, sin da subito pensarono di potersi servire dei preti per ammorbidire l’ostilità della popolazione nei loro confronti. Il capo della polizia segreta sovietica (NKWD), Ivan Sierov, di stanza in Polonia dal 1944, si dette da fare per creare un’organizzazione cattolica con la quale infiltrarsi nelle strutture ecclesistiche: nel 1945 fu fondato il movimento cattolico filogovernativo PAX (che presto divenne un partito, con il proprio giornale e una omonima casa editrice). A capo di Pax venne posto un personaggio controverso (prima della guerra, ex simpatizzante dei fascisti, fervente cattolico e antisemita), Boleslaw Piasecki (1915-1979): un doppiogiochista che finì vittima delle sue manovre. Nel 1956, suo figlio venne assassinato in circostanze misteriose. Nel 1963, il Segretario di Stato vaticano inviò al Segretario della Conferenza episcopale francese una “nota” del Primate Wyszynski: «In realtà PAX non è un movimento, ma un organo strettamente articolato dell’apparato poliziesco, che dipende strettamente dal Ministero degli interni ed esegue con cieca obbedienza le direttive della polizia segreta».
Non fu facile quindi per la Chiesa imparare a convivere col comunismo e l’ateismo di stato e lo scontro fu, soprattutto agli inizii durissimo. Una considerevole parte della chiesa polacca si oppose decisamente al regime imposto da Mosca, scadendo però spesso in posizioni antisemite. L’allora primate August Hlond, parlò apertamente della responsabilità degli ebrei nell’introduzione del comunismo in Polonia. Non mancarono i preti ammazzati e, soprattutto, quelli a lungo incarcerati. Il vescovo di Kielce, Czeslaw Kaczmarek, ad esempio, venne imprigionato con l’acccusa di spionaggio a favore degli Stati Uniti, del Vaticano e del Comitato per l’Europa Libera, e anche per aver fornito informazioni segrete ad agenti britannici. E il cardinal Wyszynski, sempre nel 1953, venne posto agli arresti domiciliari, nel monastero di Lidzbark, dal regime di Bierut per essersi rifiutato di condannare pubblicamente Kaczmarek (il cardinale verrà poi liberato il 28 ottobre del 1956, in seguito alla momentanea vittoria dell’ala liberal-nazionalista del Partito comunista guidata da Wladysław Gomułka). Ma il vescovo di Kielce, nel luglio del 1946, aveva giustificato il feroce pogrom della sua città, nel quale furono ammazzati 42 ebrei perchè «gli ebrei collaboravano con il regime comunista» e aveva sostenuto che quei fatti potevano essere una provocazione ebraica.
Su questi fatti e sulle differenti, e spesso contrastanti, posizioni dell’episcopato polacco (il vescovo di Czestochowa, Teodor Kubina, ad esempio, e molti intellettuali cattolici di Cracovia avevano decisamente condannato ogni forma di antisemitismo), lo storico polacco Adam Michnik ha di recente pubblicato un acuto saggio che aiuta a capire anche i fatti di oggi (Il pogrom, Bollati Boringhieri, 2007). Come si vede, la situazione era assai ingarbugliata e le posizioni sia nel potere comunista che nell’Episcopato, decisamente poco chiare. Se, da una parte, soprattutto dopo il 1956, i vertici della Chiesa polacca, guidati da Wyszynski, iniziarono, incoraggiati dal Vaticano, a cercare un’intesa e un modus vivendi con il potere, che vide prevalere la ricerca di un compromesso (mentre, come abbiamo visto, gli apparati di sicurezza si infiltravano tra i prelati con ricatti e minacce), un’altra parte, via via più forte, dedicò tutte le proprie energie al lavoro tra la gente, al dialogo con gli intellettuali laici, e persino di origine ebraica, che iniziavano a opporsi al regime.
Il cardinal Karol Wojtyła, pur anche lui dotato di grandi capacità diplomatiche e disposto a far di tutto per evitare rivolte e spargimenti di sangue, impersonò questa seconda tendenza: una resistenza senza violenza ma senza compromessi. Così, negli anni settanta, la Chiesa divenne un punto di riferimento per tutti coloro che si opponevano al regime comunista. Come notò, Adam Michnik, che divenne uno degli ispiratori di Solidarnosc, nel libro La Chiesa e la sinistra in Polonia (1977), questa alleanza, tra società civile e settori più aperti della chiesa, avrebbe sconfitto il potere in modo non violento. È ciò che avvenne, anche grazie all’enorme incoraggiamento derivato dalla salita di Wojtyła al soglio pontificio (1978), nell’estate del 1980 con gli scioperi operai (che sui cancelli invece delle bandiere rosse issavano i ritratti del Papa) e la nascita di Solidarnosc. Da quel momento, soprattutto negli anni più duri seguiti al colpo di stato del dicembre 1982, la Chiesa fu in prima fila nella lotta della società polacca per la democrazia, subendo anche violenti attacchi, come nell’ottobre del 1984, con l’assassinio del coraggioso padre Jerzy Popiełuszko, che non soltanto incitava la gente a resistere ma attaccava i preti troppo accondiscendenti con il potere (nei dossier dei servizi segreti, non ancora del tutto aperti, sembrerebbero esserci anche delle prove di complicità di alcuni prelati nella sua eliminazione).
La conquista della democrazia, nel 1989, dopo il primo momento di euforia, tradottosi soprattutto nella rapida edificazione di numerose, enormi, orribili chiese, ha portato la Chiesa polacca, dopo la morte di una figura carismatica come Wojtyła, a una crisi della quale le lotte intestine e i dossier di questi giorni sembrano la manifestazione più evidente. Ma già da tempo, sconfitto il nemico comunista, che di fatto ne giustificava il ruolo e l’autorità, la Chiesa non ha saputo tenere il passo con una società che il rapidissimo processo di modernizzazione e diffusione dei consumi ha reso improvvisamente laica (anche se esteriormente ancora legata ai riti cattolici) e poco propensa ad accettare un’autorità che non serve più da difesa dei diritti e dell’identità nazionale. La cultura cattolica polacca esprime ancora personalità e idee di grande valore e profondità spirituale, ma troppi sono i segnali di scricchiolamento di un apparato incerto e travolto prima da scandali sessuali e ora dai fantasmi delle cruente battaglie del passato, dove spesso i confini tra il bene e il male non erano così precisi e sicuri.