Apocalisse con figure
Alla fine di uno dei miei più crudeli settembre, quello del 1975, mi trovavo a Venezia per la Biennale di teatro, sotto un cielo di plumbee nuvole dalle forme barocche, che sembravano preannuciare la fine del mondo.
Mi capitò di assistere per caso a una strana scena. Un gruppo di persone stava in piedi, in semicerchio, guardando il canale. Si accostò alla riva una barca a motore con un uomo dalla rada barbetta ritto in piedi. Appena sceso iniziò subito a scrutare in silenzio le persone, una per una, come se le passasse in rassegna. Ogni tanto ne indicava una e quella, prescelta, veniva fatta accomodare sulla barca. Completata la “selezione”, l’imbarcazione riprese lentamente il largo, diventando piccola, piccola. Il giorno segunte mi sottoposi anch’io a quel singolare rito: fui scelto e salii baldanzoso, rischiando subito di perdere l’equilibrio, sulla barca. Durante il viaggio verso l’Isola di San Giorgio tutti rimasero in assoluto silenzio. In mezzo alla laguna, sembravamo esser entrati a far parte del quadro del pittore simbolista svizzero Arnold Böklin, L’isola dei morti. Su quell’isoletta veneziana in effetti assistetti a uno strano rito: un Gospel tragico e amaro. Lo spettacolo teatrale forse più suggestivo che mi sia stato dato di vedere fino ad oggi. Si intitolava Apocalypsis cum figuris, del regista polacco Jerzy Grotowski. Non scorderò mai la scena finale, quando l’attore Antoni Jaholkowski (che impersonava il Grande Inquisitore) cacciò per sempre l’Innocente dal nostro mondo. E così, le fiamme delle candele e le grida, che avevano animato quella sorta di povera piazza delimitata dal pubblico, si spensero e rimase solo il Buio e il Nulla.
Apocalypsis cum figuris, il cui titolo rimandava alla celebre serie di incisioni di Albrecht Dürer, è stato l’ultimo spettacolo realizzato da Grotowski. Dopo aver debuttato nel 1969, a Breslavia, fu presentato in diverse occasioni anche in Italia, (a partire da quella Biennale di Venezia del 1975 fino agli inizi del 1980, a Genova). Opera dalla lunghissima preparazione, fu la massima esemplificazione del pensiero e della ricerca del regista polacco, profondo riformatore del teatro e protagonista dell’avanguardia del Novecento. Il suo “teatro povero”, poneva al centro dell’azione scenica solo l’attore e le sue capacità fisiche e vocali, abolendo tutto ciò che non fosse necessario, dalla scenografia al palcoscenico, individuando l’essenza del teatro nel rapporto fra attore e pubblico. Non credo che sia stato, fino ad oggi, inventato un modo più efficace per rappresentare l’Apocalisse.
Nelle rappresentazioni della Fine del mondo si è sempre esagerato. Lo stesso Dürer si è fatto prendere dalla suggestione dei cavalli, dei vessilli e delle trombe. E invece, siamo ormai in molti a esserne convinti, quando avverrà l’Apocalisse, chi si aspettava folgori e lampi, rimarrà deluso. E chi si aspettava segni e trombe di arcangeli, non crederà che già stia avvenendo. Finchè il sole e la luna saranno là in alto, il calabrone (che, secondo le leggi della Fisica, nemmeno dovrebbe volare) visiterà la rosa e nasceranno rosei bambini, nessuno crederà che stia già avvenendo.
Non ci sarà altra fine del mondo, sostenne il poeta lituano-polacco Czesław Miłosz nella sua Canzone sulla fine del mondo (1945), scritta durante la baraonda tragica della Seconda Guerra Mondiale. La modernità si è dovuta rassegnare all’idea di un’Apocalisse fredda, senza clamori nè fanfare. Non che non siano mancate le manifestazioni dell’Inferno (basti pensare appunto alle due Guerre Mondiali, o alle catastrofi nucleari). Ma quelle sono state vissute e interpretate come squarci, crepe, dalle quali è eruttata la lava del Male, portando distruzione e dolore, ma senza dare la sensazione di qualcosa di definitivo: della resa dei conti finale, della scomparsa del mondo.
L’Apocalisse scritta da Giovanni (o chi per lui) nella grotta angusta dell’isola di Patmos, negli anni Novanta del primo secolo dopo Cristo, è la “rivelazione” della Fine ed è qualcosa che arriva direttamente dal Cielo. Lui la descrive con i mezzi della sua immaginazione e con tutte le suggestioni necessarie a dar forza alla sua profezia: angeli, cavalieri, animali e altri simboli. Ma le apocalissi delle quali abbiamo avuto esperienza noi sono delle macellerie artigiane, fatte con strumenti rozzi e imprecisi, o i graffi della Tecnica che, a noi impacciati apprendisti stregoni, sfugge ogni tanto di mano. Tutto però poi riprende e continua. Sono prove della Fine ma, nonostante la scomparsa dolorosa di molti, non è mai la Fine.
L’Apocalisse è quindi diventata quasi un fatto invisibile, punteggiata dalle nostre morti personali e private: momenti in cui, forse, ciascuno di noi sperimenta (senza poterlo poi riferire a coloro che gli sopravvivono), la manifestazione del senso più o meno tragico del Tutto. Essa è come le nostre avventure. Ma James Joyce ci ha fatto capire che la più grande avventura della nostra vita è l’assenza di avventure. L’Odissea di Omero si è trasferita dentro di noi. Si è interiorizzata. Le isole, il mare, le sirene che ci seducono, Itaca che ci chiama a sé, oggi non sono altro che le nostre voci interiori.
Questo è il motivo per cui quando arriverà la fine del mondo ci dovremo stropicciare gli occhi. Non ci accorgeremo che è già iniziata da molto tempo, in forma impercettibile, e faremo fatica a comprenderne la rivelazione. Ce la siam beccata un po’alla volta come un tumore silenzioso che si espande e alla fine esplode e si rivela.