Rifare la patente
La cerimonia del tè con i suoi rituali complessi e eleganti, il kyūdō, l’antica arte dell’arco dai movimenti misurati e aristocratici, oppure la permanenza per qualche notte in un monastero buddhista tra i monti, praticando la meditazione intervallata da pasti rigorosamente vegetariani: sono tutti ottimi modi per avvicinarsi alla cultura giapponese e capirne la profondità. Ma l’esperienza immersiva più illuminante è, secondo me, andare a fare il rinnovo della patente.
Dopo i primi 3 anni di guida dal primo conseguimento bisogna andare a rifarla, e a seconda delle infrazioni commesse o meno il procedimento cambia un po’. Arrivati all’ufficio si entra in un mondo, o forse un universo in cui tutto funziona come in una catena di montaggio: nel ridottissimo spazio all’interno del palazzo comunale dove si svolge il tutto si passa da uno sportello all’altro. Accettazione, compilazione del modulo, pagamento del bollettino (è possibile utilizzare anche le varie app di pagamento dal cellulare), visita oculistica sommaria, giusto per verificare che il guidatore non sia pesantemente impossibilitato, foto da mettere sulla tesserina nuova. Alle pareti ci sono grossi numeri progressivi in corrispondenza dei banconi a cui andare, e per terra ci sono frecce applicate con il nastro adesivo rosso, oltre alle linee orizzontali a cui fermarsi per rispettare le distanze. Tutto procede in modo ordinato, estremamente ordinato se si è appena tornati in Giappone dopo un mese italiano.
Dopodiché ci si sposta in un’aula dove ha luogo la mezz’ora da scontare per ottenere finalmente la patente nuova. In questi trenta minuti l’impiegato della polizia distribuisce dei fascicoli che trattano la sicurezza stradale e illustrano i dati e le statistiche sugli incidenti degli ultimi anni, poi parte un video.
Il filmato ha una funzione educativa, illustra i rischi per autisti e pedoni, e lo fa usando uno strumento ampiamente sfruttato in Giappone: la paura. Video autentici di incidenti spingono tutti noi presenti -lo percepisco- a pensare che è il caso di fare attenzione alla guida, lasciando nel contempo un sottile filo di angoscia. Il pubblico di rinnovaturi segue il tutto con attenzione, annuendo occasionalmente. A questo giro non ho ricevuto multe quindi sono nella classe che riceverà la patente d’oro, quella del punteggio pieno, ma non mi è sempre andata così. In una tornata precedente (avevo convertito la patente italiana una prima volta, molti anni fa per poi tornare a quella italiana, prendere quella della moto, insomma una trafila lunga da spiegare) avevo rinnovato la patente dopo aver commesso qualche infrazione, ed ero finito nella classe dei somari. Qui l’atmosfera era decisamente meno accomodante: oltre al video c’era una ramanzina tutta accordata sul tono preferito dalle autorità di pubblica sicurezza giapponesi: il paternalismo. In particolare uno dei compagni di rinnovo, seduto nel banco accanto a me, dava segno di essere distratto e questo ha scatenato il nervosismo del nostro docente che ha impiegato un sacco di tempo a sgridarlo. Video di incidenti, racconti dalla viva voce di familiari di gente deceduta sulla strada e un generale atteggiamento di sfiducia nei nostri confronti mi avevano lasciato con la patente rinnovata e di umore pessimo. Ma questo era il passato, adesso ho in tasca la regina delle patenti, quella dei guidatori coscienziosi, quella d’oro.
In un ipotetico corso universitario di antropologia pratica, la ricerca sul campo dovrebbe essere condotta sbrigando pratiche negli uffici del paese, rilevando i meccanismi psicologici insiti negli amministratori e nel pubblico.
Personalmente ogni esperienza del genere mi fa provare la sensazione stranamente confortante di essere eterodiretto, e questo avviene in modo esemplare anche durante l’annuale visita medica di controllo. Questa avviene in una grossa struttura convenzionata con il comune, dispiegata su numerosi piani di un intero palazzo: si entra, si consegnano gli incartamenti e si viene indirizzati in zone diverse, separati tra uomini e donne, ognuno con un cartellino numerato, a uno spogliatoio in cui indossare una specie di palandrana da degente, comodissima per farsi visitare. A quel punto si è tutti uguali, io non riesco a non ripensare a squid game o a una analoga rappresentazione dell’uguaglianza degli esseri umani di fronte alla salute e alla malattia (evito di spingermi oltre e dire alla morte ma ci capiamo). Ho il tempo di perdermi in questi pensieri oziosi perché gli addetti, infermieri contemporaneamente sbrigativi e gentilissimi, indirizzano me e le altre decine di pazienti in un androne centrale dove attendere di essere successivamente portati nelle varie stanzette in cui avvengono le visite. Non devo pensare a niente, solo eseguire gli ordini: poggi il braccio qui, stia in piedi, respiri, apra gli occhi, guardi qui, alzi le braccia, aspetti un minuto seduto lì. In 35 minuti ho fatto 7-8 visite tra cui il prelievo del sangue e i raggi al torace, il tutto venendo gestito come se fossi un incrocio tra un pacco e un ovino.
Il corso monografico di cui sopra lo intitolerei: “Meritocrazia, paura e paternalismo: le basi dell’ordine sociale giapponese traghettate attraverso i secoli fino ad oggi”.