Drive my car e Murakami
Attenzione: questo post svela alcuni passaggi del film Drive my car di Ryūsuke Hamaguchi. Se volete guardarlo senza saperne assolutamente niente ripassate dopo la visione, grazie.
Un film che dura solo un minuto meno di 3 ore è certamente molto esigente verso il pubblico, inoltre il ritmo non proprio vivacissimo di Drive my car del regista Ryūsuke Hamaguchi prevede che chi guarda sia disposto a lasciarsi andare senza aspettarsi azioni spettacolari. È un film che più che trascinare invita a salire a bordo e mostra allo spettatore un panorama che cambia davanti a sé, come se si fosse su un treno o su una macchina un po’ vecchiotta ma affidabile. La sceneggiatura è tratta pescando da due racconti brevi di Haruki Murakami, e la presenza di questo autore si percepisce in molti particolari del film: il gusto sofisticato di alcuni personaggi, i dischi a casa del protagonista, l’ossessione per alcuni oggetti come la car del titolo, una certa atmosfera letteraria. Il regista, però, cuce i due racconti (si tratta appunto di Drive my car e Sheherazade, entrambi contenuti nella raccolta Uomini senza donne) e aggiunge Zio Vanja di Čechov come complemento narrativo: una storia nella storia che invade la vita dei personaggi e la guida. Nonostante Drive my car abbia vinto il Golden Globe come miglior film straniero e sia in gara ai prossimi Oscar, sarà difficile che, dopo aver esaltato i critici cinematografici, sfondi sul mercato perché oltre ad avere un ritmo stiracchiato, i continui riferimenti letterari e teatrali lo rendono un po’ estetizzante e decisamente elitario.
Il protagonista è un uomo solo e poco comunicativo che ha vissuto il trauma di un lutto ed è incapace di digerirlo per pareggiare i conti con sé stesso. Il film racconta, nel suo punto apicale, il viaggio intrapreso per superare il dolore della perdita; e per farlo utilizza un tema molto giapponese: una visita -metaforica- al mondo dei morti. Imbarcarsi per attraversare l’acqua e approdare nell’aldilà non è certo un tema esclusivo del Giappone, ma la mitologia di questo arcipelago prevede che lo stretto che separa a nord il Tōhoku dall’isola di Hokkaido rappresenti il passaggio verso l’oltretomba, l’ultimo viaggio che le anime devono intraprendere. Lì davanti c’è anche il monte sacro Osorezan, dove ogni anno si svolge il festival dei defunti e le sciamane chiamate itako permettono di incontrare i propri morti andando in trance e prestando ai morti le loro orecchie, la loro voce. La vista no, perché il più delle volte sono cieche. Anche se non ci sono sciamane in Drive my car, nella la scena più importante il protagonista e la ragazza che lo accompagna diventano uno la itako dell’altra e sembrano dirsi a vicenda “stai tranquillo, io sto bene, puoi continuare la tua vita senza rimpianti”. Questo episodio non esiste nei racconti piuttosto stringati di Murakami usati per la sceneggiatura e regala al film lo snodo più coinvolgente.
Oggi sono venuto per la prima volta in un posto di cui avevo letto mesi fa, e in questo momento sto scrivendo seduto su un divanetto della biblioteca “Murakami Haruki”. Sono delle sale nuovissime, aperte nell’ottobre 2021 in uno degli edifici dell’università Waseda, ed essendo pensate dallo scrittore contengono una serie di elementi tipici della sua estetica. Nel lounge c’è un bell’impianto hi-fi collegato a un giradischi che la ragazza della reception gestisce cambiando i vinili, invariabilmente di jazz degli anni ‘60 o musica classica composta tra l’’800 e il ‘900. Le varie sale si snodano tra poltrone dove mettersi comodi a leggere i libri contenuti negli eleganti scaffali di legno. Si può scorrere l’opera omnia di Murakami, incluse le traduzioni in lingue straniere, mescolata a una selezione di autori amati dal nostro. Io ho sfogliato il suo libro sui jazzisti nella traduzione inglese e un volume di racconti di Raymond Carver. Al piano superiore c’è uno spazio per allestire mostre e uno studio radiofonico, al piano di sotto si trova un piccolo caffè in cui è esposto il pianoforte a mezzacoda che allietava i clienti del locale in cui lavorava lo scrittore da giovane. Noto che ci sono anche, conservati in delle teche di plexiglas, alcuni dischi con un timbro sulla copertina: un cartiglio spiega che sono quelli originali suonati nel jazz cafè di cui sopra. La biblioteca è bella, moderna, ma dopo un po’ mi pervade la sensazione di essere in una specie di casa-museo, una Mozarthaus dedicata a un autore contemporaneo vivente, che ha per giunta contribuito ad allestirsela. Le visite sono limitate a 90 minuti per turno, che è esattamente l’arco di tempo giusto per andare a trovare qualcuno e andarsene senza che ospite e padrone di casa comincino a pensare che si è fatta una certa ora.