Dieci anni dal terremoto del Tōhoku
Tutti hanno vissuto un giorno che non dimenticheranno mai, di cui ricordano ogni momento con precisione, nel mio caso quel giorno è l’11 marzo di dieci anni fa.
Quel venerdì alle 14.46 ero nel mio piccolo appartamento vicino a Ochanomizu dove abitavo da solo e mi stavo preparando per uscire quando è arrivato il terremoto più forte mai registrato. La scossa è cominciata come tante altre, il condominio ha cominciato a tremare, solo che invece di smettere dopo pochi secondi come succede sempre, sono cominciati degli scossoni violenti. Il suono dei fili dell’elettricità che sbattevano, fuori, sulla strada, cominciava a essere incongruente, si sono sentiti vasi cadere e un rombo grave, diffuso, ha coperto tutto. A quel punto la paura mi ha fatto reagire nel modo più sbagliato: sono scappato fuori di casa e mi sono trovato per strada in calzini, fortunatamente non c’erano vetri per terra. Vicino a me c’erano altre persone, e a quel punto la terra ha cominciato un movimento sussultorio dandomi l’impressione di non avere una superficie affidabile su cui stare in piedi. Questo senso di instabilità come se fossi su una barca o su un ponte di corde è stato sconvolgente. Dopo un tempo interminabile la prima scossa si è placata, sono tornato in casa, ho cancellato l’appuntamento che avevo ed è arrivata la seconda scarica, stavolta non sono uscito e ho acceso la televisione. Il cielo che poco prima prometteva una giornata serena d’inverno quasi finito si è coperto di nuvole scure, minacciose. Ho passato il pomeriggio a seguire le notizie sullo schermo, cercando di capire cosa sarebbe successo da lì a poche ore. È arrivata la padrona di casa a riattivare il gas bloccato per un dispositivo di sicurezza e mi ricordo di averle chiesto conferma che non sarebbero arrivate altre scosse. Mi ha guardato con un’aria interrogativa. Durante la serata sono uscito per capire meglio la situazione e per non rimanere chiuso in camera da solo. Tokyo era bloccata: i treni non si muovevano e tutti quelli che erano usciti dal lavoro dovevano tornare a casa a piedi: alcuni ci hanno messo tutta la notte percorrendo le decine di chilometri che di solito attraversavano in treno. Ricordo di aver sentito impiegati chiedere ai poliziotti la direzione per posti in altre province, a più di un’ora di treno dal centro di Tokyo. I negozi e i minimarket erano completamente sprovvisti di cibo perché avevano dovuto sfamare tutti quelli che non avevano mangiato a casa o al ristorante. Nel frattempo sulla costa orientale del Tohoku si abbatteva uno tsunami spaventoso che avrebbe cancellato la vita di persone, paesi e intere comunità. Non sono riuscito ad addormentarmi fino al mattino.
I giorni seguenti sono stati dominati da un senso di paura strisciante e molto faticosa: le scosse di assestamento non si sono mai placate, e a ogni vibrazione si aveva l’impressione che tutto ricominciasse da capo, magari in modo più forte, definitivo. Per settimane ho avuto paura anche di farmi la doccia, perché scappare di casa nudo e bagnato sarebbe stata la cosa peggiore, e a un certo punto mi sono accorto che avevo smesso di ascoltare la musica, cosa per me innaturale, ma avevo troppa paura che coprisse la percezione di nuove vibrazioni, e in generale non ero abbastanza rilassato per ascoltarla.
Girando per la città si capiva che tutti avevano avuto l’esperienza più spaventosa della propria vita in quello stesso momento, la sera le strade erano buie per le chiusure dei negozi e la città aveva deciso una serie di riduzioni nell’erogazione dell’energia basate principalmente sull’evitare di accendere le luci, e la gente stava a casa al buio.
Ma a Tokyo eravamo fortunati: nel Tōhoku il maremoto ha inghiottito più di 15mila persone e provocato il disastro del reattore nucleare di Dai Ichi, propagando radiazioni nella zona circostante.
Qualche mese dopo ho incontrato il mio amico S, tecnico impiegato alla TEPCO, l’azienda dell’energia elettrica responsabile della centrale nucleare. Il giorno del terremoto è partito da Tokyo e con la sua squadra ha percorso in furgone le strade disastrate del nord fino al reattore in panne. I racconti che ho sentito da lui non li dimenticherò mai. In maggio poi sono stato nei paesi distrutti dallo tsunami per un lavoro televisivo, accorgendomi che quella situazione non può essere raccontata e capita pienamente dalle immagini riprese. I luoghi della vita di centinaia di migliaia di persone semplicemente non esistevano più, l’acqua si era portata via tutto, le case, le strade, e ovunque delle abitazioni rimanevano solo le tipiche fondamenta di cemento. Ho incontrato gli abitanti colpiti dai lutti, i bambini che giocavano tra le macerie. A Kamaishi una nave enorme era appoggiata sul molo, lasciata lì dalla marea nera che si era alla fine ritirata; nel paese vicino, più a nord sulla costa, le macerie avevano tracce di incendio e mi hanno spiegato che il combustibile disperso da un distributore di benzina aveva preso fuoco e lì lo tsunami era sovrastato dalle fiamme. Molti edifici considerati sufficientemente in alto e sicuri erano stati travolti dall’acqua così come alcune scuole a quell’ora piene di studenti. Sono tornato a Tokyo con un senso di gravità e rispetto per la popolazione del Tōhoku. Ho capito che nonostante sia naturale non pensarci nella vita quotidiana, i disastri sono inevitabili per come è strutturata la vita sulla terra, ritorneranno di continuo e bisogna sapere affrontarli individualmente e come comunità.
Il grande terremoto dell’11 marzo con il conseguente maremoto e la crisi nucleare di Fukushima mi hanno fatto capire che avrei continuato a vivere in Giappone. Nonostante il naturale senso di inquietudine mi sono sentito tranquillo perché non ho visto cedere al panico, approfittare della situazione o cercare di mettersi in salvo a discapito degli altri. Da allora all’ingresso delle mie case c’è sempre uno zaino con dentro tutto il necessario per scappare e sopravvivere.