Scarpe e razzismo
Il primo dicembre una grossissima casa produttrice di scarpe e vestiti sportivi ha lanciato sul mercato giapponese uno spot che tra youtube e twitter ha totalizzato 25 milioni di visualizzazioni in pochissime ore.
In 2 minuti presenta la storia di 4 ragazze adolescenti che giocano a calcio. Abitano in Giappone ma ognuna di loro ha origini estere e le loro voci fuori campo raccontano i problemi di identità e la difficoltà di essere accettate dagli altri. “Sono diversa da tutti?” “Devo uniformarmi di più al gruppo?”, “Questo non è il mio posto?”. In alcune scene si vedono sugli smartphone post aggressivi e razzisti, in altre ci sono le compagne di classe che maltrattano o bullizzano alcune delle protagoniste. Si vede Naomi Osaka, sponsorizzata dalla stessa marca, che ha portato all’attenzione dei media giapponesi i problemi del razzismo statunitense e che da alcuni giapponesi viene considerata un essere di un limbo quasi apolide, nonostante sia cittadina di questo paese. Il tutto termina con l’affermazione che il futuro non aspetta e il presente è lì, pronto per essere afferrato dando il meglio di sé nello sport che aiuta a sentirsi uniti e vincenti.
Lo spot ha sollevato una marea di commenti sui social e ha presto polarizzato gli utenti tra entusiasti e critici. I primi hanno salutato la campagna come una mossa di grande coraggio perché contesta la visione ipocrita di chi sostiene che in Giappone non esista il razzismo. C’è una grossa fetta di commentatori che invece si sentono offesi dalla rappresentazione che lo spot fa degli studenti violenti verso le giovani calciatrici. Alcuni studenti con compagni di classe stranieri hanno scritto che non si sognerebbero mai di comportarsi in quel modo con i loro amici e che comunque si tratta atteggiamenti decisamente intollerabili. Altri hanno sostenuto, piccati, che in Giappone non esiste il razzismo, e che è scorretto accusare un paese mentre la multinazionale stessa sfrutta la manodopera forzata o sottocosto di alcune zone della Cina per produrre la merce. Molti hanno affrontato la questione come se si trattasse di un’accusa mossa al Giappone da un punto di vista straniero, che nel caso di una campagna pubblicitaria del genere è un’interpretazione abbastanza fuori bersaglio. Il responsabile della campagna Yuma Endo ha detto che gli anziani giapponesi arrabbiati non erano il target che si era proposto e che quindi va bene che disapprovino. Probabilmente tutto questo significa che la campagna funziona, e nonostante le dichiarazioni (numerosissime) del tipo “non comprerò mai più niente da voi” l’impressione lasciata sulle persone favorevoli avrà un peso maggiore.
A me rimangono alcuni interrogativi.
Il dibattito su un problema così delicato trae beneficio da un’operazione del genere? È vero che la comunicazione pubblicitaria si occupa di questioni sociali e anche politiche da anni, ma è il veicolo adatto per cambiare la società? Non ho una risposta, ma il filmato oltre a presentare coraggiosamente il problema stimola il lato più emozionale di chi lo guarda e porta a una polarizzazione estrema tra le parti. In quanto finzione (anche se ispirata alla realtà) si presta a critiche di ogni tipo, ma può essere la partenza di un dialogo sereno, efficace?
Guardo queste ragazze che vivono i loro dubbi a scuola e in famiglia nei loro vestiti ordinari e poi esprimono sé stesse in allenamento, sono felici negli abiti di marca, nelle riprese con l’illuminazione perfetta, con il montaggio dinamico da vincenti, la frase perfetta del copy e mi ritrovo con una sensazione di incertezza.
Il problema del razzismo in Giappone è molto complesso (mi chiedo dove non lo sia) e ha delle declinazioni stratificate, spesso inaspettate per un occidentale; è un punto su cui la sensibilità delle persone tende a irritarsi facilmente. La mia domanda è: può uno spot pubblicitario così utilizzare questi toni che creano divisioni e schieramenti ostili? Il problema del razzismo è delicato, intricato, e forse andrebbe maneggiato con cura e in altri contesti per evitare di perdere le possibilità di un dialogo. E adesso aspetto, guardando gli sviluppi e sperando di essermi preoccupato per niente.