La morte della wrestler Hana Kimura
Ho lasciato l’Italia che i reality show erano in piena espansione, creavano personaggi, discussioni, i critici televisivi ne analizzavano le dinamiche: erano il nuovo linguaggio e avrebbero influenzato in modo irreversibile il mondo dello spettacolo e la società. In Giappone, invece, i reality non hanno mai veramente preso piede, forse perché la vita privata delle persone comuni va protetta e comunque non interessa al grande pubblico. Inoltre l’idea di farsi vedere come si è veramente, senza falsità o filtri, che sta dietro a molti reality semplicemente non ha senso, qui. Il mondo dello spettacolo è fatto di professionisti che mostrano quello in cui sono bravi, i programmi televisivi sono riempiti quasi solo da comici, tarento, cantanti, annunciatori/trici, giornalisti, insomma persone di spettacolo che parlano, cucinano, mangiano, fanno ridere, se la cantano e se la suonano di fronte a tutto il paese ammirato.
Dopo un’esperienza embrionale chiamata Ainori (love wagon), programma in cui dei ragazzi giravano in Giappone e all’estero con un furgoncino che facilitava il coinvolgimento in amorazzi on the road, è arrivato Terrace House. Qui giovani uomini e donne condividono una casa, vivono esperienze insieme sotto l’occhio delle telecamere e dei commentatori che, in studio, giudicano i comportamenti di tutti come farebbe il pubblico da casa, infatti sono seduti un po’ sul divano, un po’ sui cuscini per terra: nell’intenzione del programma sono degli amici che si sono trovati da qualcuno per guardare lo show. A ogni puntata si garantisce l’assenza di un copione, ma ad oggi chi può credere che questi programmi siano basati sulla spontaneità? Chi ignora che anche solo con il montaggio si può sconvolgere la realtà di quello che è successo? Anche facendo i tonti e sospendendo l’incredulità, la recitazione spudorata e pessima di alcuni dei partecipanti ci riporta violentemente alla realtà della finzione.
Tra i partecipanti, tutti modelli, aspiranti personaggi in cerca di visibilità, arriva una giovane lottatrice di wrestling femminile: Hana Kimura. Il wrestling femminile ha un grande seguito in Giappone (siamo comunque nel paese dell’uomo tigre) e Hana, figlia a sua volta di una lottatrice è una professionista di 22 anni che spera di aumentare l’interesse del pubblico per la lotta libera. Per un incidente che può sembrare stupido o sconvolgente a seconda di chi lo vede, un coinquilino lava distrattamente il costume di “scena” che Hana ha lasciato nella lavatrice, rovinandolo. Lei ne è sconvolta: oltre a essere molto costoso il costume è fatto su misura, un pezzo unico per lei importantissimo; ne nasce una lite con il responsabile che si scusa. Prima di riuscire a calmarsi, Hana alza la voce, strappa il cappellino che lui indossa e se ne va furente. A questo punto chi vuole accusarla ha un’autostrada a disposizione: il costume lo ha dimenticato lei nella lavatrice, non aveva il diritto di arrabbiarsi, non sta bene, e alzare le mani non è assolutamente accettabile in un litigio, specie se pubblico. Anche qualche commentatore in studio si esprime in questi termini.
Su questo c’è da notare una cosa: i commenti dei “famosi” in studio rompono una regola non scritta finora sempre rispettata nelle trasmissioni in Giappone: non parlare male del prossimo. Questi intrattenitori, forti della loro posizione di “arrivati” criticano apertamente gli inquilini della casa, una cosa che chiunque davanti alla televisione fa, ma vista sullo schermo assume un altro peso. L’episodio del costume è trasmesso in marzo, e in piena crisi COVID19 Hana abita da sola in isolamento mentre sui social comincia a essere bersagliata da messaggi di critica, odio, violenza. Questo fenomeno in Giappone ha degli aspetti mostruosi: chi partecipa al bullismo online non conosce limiti e più percepisce la debolezza della vittima, più affonda nell’inumanità. Il 23 maggio, dopo un po’ di messaggi chiaramente autodistruttivi e di addio, Hana si toglie la vita in solitudine, dopo aver lasciato il gatto all’ufficio della squadra di wrestling con cui lavora. Aveva chiaramente scritto di essere scossa dai messaggi di odio e dalle istigazioni al suicidio che riceveva quotidianamente.
La produzione di Terrace House, dopo essere stata ferma per il virus, è stata annullata e probabilmente non riprenderà mai più. Si parla di nuove regole per limitare la libertà di bullizzare il prossimo on line, ma mi chiedo: è possibile reprimere l’espressione dell’odio con delle leggi?. Il problema degli abusi anonimi in Giappone va di pari passo con i rapporti di potere, e quello che ci si aspetta dalle categorie che si pretende di controllare. Hana è stata bersagliata perché donna? Molto probabile, anche perché una ragazza determinata e fisicamente forte può far sentire minacciato il tipo di uomo frustrato che tipicamente vomita odio on line. Di fatto le donne sono ancora sottoposte a giudizi più severi degli uomini, anche da parte di altre donne, purtroppo. Hana è stata bersagliata perché figlia di un genitore indonesiano? È possibile, il razzismo verso gli altri asiatici è uno spettro che il Giappone non ha mai sconfitto del tutto.
Questa brutta storia ha scoperchiato una serie di problemi (semi)nascosti della società in cui vivo, ma il più urgente è, secondo me, quello della cura per il benessere psicologico, spesso completamente ignorato. Nel paese in cui si vede il dottore quando si ha il raffreddore, i fenomeni di disagio o depressione sono trattati in modo troppo spesso sbrigativo. Un aiuto psicologico aiuterebbe, ne sono sicuro, sia le vittime che chi abusa della debolezza degli altri. Spero tanto che la scelta disastrosa di Hana porti a interrogarsi sull’importanza di parlare del proprio disagio con amici, genitori, professionisti, media, invece di coprire tutto con la concezione di haji (vergogna) che fa danni irreparabili e impedisce ai giovani fiori di sbocciare.