Arrivederci Tokyo, mata ne
Esco di casa, con i bagagli che non so se sono per due-tre giorni a Kyoto, una settimana in Italia o è il trasloco definitivo dal paese in cui sono residente da 7 anni. Ogni opzione è probabile, mi sembra. Alla stazione centrale di Tokyo c’è pochissima gente, ma che pare non curarsi affatto delle minacce che arrivano dalla terra e dall’aria, solo il numero di mascherine è più alto del solito, mi pare. E poi vedo delle scene che mi portano quasi un nodo in gola. Gruppi di salaryman in abito scuro, mezzi ubriachi, tornano a casa, si salutano alla stazione e salgono sul treno. Dopo una bevuta con i colleghi, dopo il lavoro straordinario, dopo un’intera giornata in ufficio.
Questa è Edo, la capitale del Giappone: un posto dove la gente ha in spregio la vita perché la ama troppo, tanto da non rinunciare a viverla anche durante un allarme nucleare. Mi sento orgoglioso di abitare qui. Non esiste un posto come questo, almeno io non ne ho visti finora.
Io e Yuki prendiamo l’autobus notturno che parte alle 23:10, alle 22:58 c’è un terremoto del grado 6 a Shizuoka, la zona del monte Fuji. Non c’è ancora tregua. Probabilmente l’arrivo a Kyoto ritarderà di qualche ora, dice l’autista che ha un accento settentrionale. Mi viene da chiedergli se abbia subito lutti, ma lascio perdere. La strada è vuota, invece, arriviamo a Kyoto in orario, quasi in anticipo. Adesso si tratta di organizzare il ritorno in patria, non sembra facile. Per niente.